“Il governo Monti fa saltare l’autonomia giuridica di quattro istituti scolastici orvietani. A stabilirlo è la manovra Salva Italia varata dal governo nei mesi scorsi che ha alzato da 500 a 600 il parametro di studenti minimo per mantenere l’autonomia. Con il nuovo dimensionamento scolastico, ad Orvieto, si ritrovano infatti sottodimensionati il Liceo Classico e Artistico, l’istituto Tecnico Professionale (che comprende anche Ragioneria e Geometri) e due scuole medie: Scalza – Signorelli e l’istituto comprensivo Baschi – Guardea”. (Da Orvietosi del 14 luglio 2012)
Il tema, interessante ma delicato, richiede attenzione e precisione, fin dalle premesse. Solo per questo mi permetto di correggere l’inesattezza dell’affermazione “il governo Monti fa saltare l’autonomia giuridica di quattro istituti scolastici orvietani”. In realtà la norma per la quale non sono più autonome le scuole con meno di 600 alunni (nel senso che ad esse non possono essere assegnati quali titolari né un Dirigente scolastico né un Direttore dei servizi amministrativi, cioè devono essere date in reggenza a chi è titolare in altra scuola dimensionata) è contenuta nell’art. 4, commi 69 e 70 della legge 12.11.2011 n. 183 (legge di stabilità 2012, a firma Berlusconi – Tremonti), la quale a sua volta ha modificato la legge 15.07.2011 n. 111 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, sempre a firma Berlusconi – Tremonti), che appunto all’art. 19, commi 4 e 5, prevedeva che le scuole del primo ciclo devono essere tutte aggregate in istituti comprensivi con non meno di 1000 alunni (questa norma è stata poi dichiarata incostituzionale dalla Corte con sentenza 147 del 4 giugno 2012) e tutte le scuole non possono avere dirigenti titolari se non hanno almeno 500 alunni.
Non ho fatto questa precisazione per pignoleria, e tanto meno per dare addosso a Berlusconi e a Tremonti, giacché la questione è di ben altro tipo e livello. Se non altro perché non nasce con l’ultimo governo Berlusconi. Per rendersene conto basterebbe citare l’art. 50, commi 7, 8 e 9 della legge finanziaria 2008 (oggi si chiama legge di stabilità), in cui sono già indicate le operazioni necessarie per il “Rilancio dell’efficienza e dell’efficacia della scuola” (ultimo governo Prodi, con ministri Fioroni e Padoa Schioppa). Volendo stare su questo terreno della necessità di un miglioramento significativo del funzionamento del sistema scolastico, a cui appartiene anche la sua riorganizzazione territoriale e il dimensionamento delle singole istituzioni, si potrebbe anche risalire ben indietro, ad esempio all’art. 11 (Iniziative finalizzate all’innovazione) del DPR 275/’99 (governo D’Alema, con ministri Berlinguer e Ciampi).
Dunque il problema è antico. Semmai c’è da chiedersi perché ci si è decisi solo ora a mettere realmente le mani su un processo di razionalizzazione la cui necessità era nota da tempo. La risposta si può trovare nell’articolo di Rosario Drago “I conti della scuola” (vedi sito web dell’ADi, Associazione Docenti italiani), pubblicato a commento della citata legge 111 del 15 luglio 2011. Diceva Drago “Nella scuola italiana, la più accentrata d’Europa, il processo di razionalizzazione è più pesante, perché si svolge in un contesto di mancata modernizzazione sia sul piano della gestione complessiva del sistema (metodi di direzione antiquati, controlli assenti, scarse qualità delle competenze direzionali, prevalente cultura assistenziale, rigidità giuridiche e contrattuali, ecc.) che degli strumenti adottati in casi di emergenza come questo”. Potremmo dire dunque: mancata razionalizzazione, mancata modernizzazione, scarsa lungimiranza, scarso coraggio, scarsa responsabilità. In Umbria non diversamente dalla maggior parte delle regioni italiane. Salvo lamentarsi quando i buoi sono scappati dalla stalla. Si può anche dire che chi si è dato da fare per guardare oltre il muro di cinta è stato visto e trattato come pericoloso sovversivo?
La razionalizzazione in Umbria è stata rinviata al 2013-2014. Se fosse stata fatta a tempo debito, oggi non ci sarebbero scuole che vanno in reggenza, e non ci sarebbero i problemi che ci sono per la direzione e per le segreterie degli istituti. Ovviamente c’è stato chi ha parlato (non certo uno solo) il linguaggio della chiarezza e della responsabilità, ma in questo campo come in altri non c’è più sordo di chi non vuole sentire.
Tuttavia ora il tempo è giunto. Si era detto che il rinvio sarebbe servito a fare una cosa più meditata, più partecipata, più razionale, finalizzata ad una maggiore sicura stabilità. Siamo a luglio, a novembre la provincia dovrà fare le proposte, a dicembre la regione dovrà decidere. Qualcuno ad oggi sa qualcosa di ciò che si farà e si dovrà fare? Di più: qualcuno sa di che cosa stiamo parlando? Per il primo ciclo: consideriamo o no orvietana la zona che va da Baschi ad Attigliano? O la cosa non ci riguarda? Attenzione, perché a seconda dei casi si possono fare due o tre istituti comprensivi, e la questione non è proprio secondaria. Per il secondo ciclo (scuola superiore): è evidente che di tre istituti se ne faranno due. Ma come? Tireremo a sorte? O ci affideremo alle solite spinte di qua e spinte di là per affermare interessucci e questioni personalissime e bassissime, magari mascherate con altisonanti e vuoti proclami?
Guardate che questa storia è seria almeno quanto quella del tribunale. E l’una e l’altra, senza visione generale e politiche conseguenti, non si risolvono. Comunque non si risolvono bene. Dagli altri non so cosa posso attendermi. Da Pier Luigi vorrei almeno qualche parola di conforto.
Franco Raimondo Barbabella
Da un recente scritto di Ernesto Felli e Giovanni Tria traggo alcune considerazioni così felicemente sintetiche che non posso non approfittarne: «Dai fatti, com’è noto, non si trae la verità. In primo luogo perché è difficile tener conto di tutti i fatti, in secondo luogo perché per capire la realtà, o avvicinarsi ad essa, è necessario interpretarli. Interpretare i fatti e trarne una comprensione coinvolge i propri modelli interpretativi sia coscienti, sia, ancor più, quelli non coscienti, annidati nelle sinapsi delle nostre menti e stratificati nel tempo».
Capisco quindi lo stato d’animo (quasi lo sconforto) di Franco, riformista e dirigente scolastico da una vita, di fronte alla pigrizia e alla malizia con cui viene mandato il sistema scolastico alla deriva. La sensazione forse più diffusa è che i veri dirigenti scolastici maturati in questo clima sono rari come le mosche bianche, quindi chi se ne frega se a un dirigente gli ammollano 500 o 1000 studenti. Forse meglio 1000, così si risparmia.
Il mio stato d’animo è condizionato dalla mia educazione cattolico-liberale. Da quei due aggettivi ricavo la tendenza a considerare la famiglia come il nocciolo duro di ogni società e quindi a vedere la coda del diavolo in tutte le istituzioni che si vogliono pesantemente sostituire alla famiglia nell’educazione dei giovani. Furono i politici cattolico-liberali a volere che il Ministero dell’educazione nazionale, così designato dal Fascismo nel 1929, riassumesse il nome di Ministero della pubblica istruzione. L’educazione spetta alle famiglie, che si fanno aiutare da coloro di cui si fidano. L’istruzione è un servizio che lo Stato ha il dovere di garantire al di là delle disparità sociali. Quindi l’istruzione pubblica è una conquista delle Stato moderno, ma diventa un apparato parassitario quando lo Stato ne impone il monopolio, e, ancora peggio, quando si arroga il diritto di attribuire titoli di studio con valore legale, cioè con l’obbligo per la pubblica amministrazione e per le varie corporazione professionali di accettarli a prescindere da una verifica della loro sostanza. Così le scuole pubbliche italiane sono affollate di giovani dei quali pochi hanno la voglia di studiare e tutti la voglia di lucrare un titolo di studio con valore imposto dalla legge. A ciò si aggiunga il veleno dell’anticlericalismo che boicotta la scuola privata, anche quella laica, per odio verso la grande tradizione della scuola cattolica italiana. Si tollerano e si dà qualche sussidio alle scuole materne delle Suore, ma lo si fa di malavoglia e nella speranza che gli scolaretti, pervenuti alla scuola statale, dimenticheranno presto le preghierine. Si accetta l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali, con la realistica convinzione che saranno sempre meno quelli che vi faranno ricorso e con la certezza che insegnanti di religione per mestiere, nominati a suo arbitrio dal Vescovo, non possono non screditare la Chiesa. Non mi pare che il Vangelo raccomandi questo tipo di apostolato.
Un certo onorevole Casati, qualche anno fa, propose di assegnare alle scuole private che dimostrassero di essere in grado di svolgere il loro compito, pagando adeguatamente il personale e non facendo pagare rette alle famiglie, la metà esatta di quanto avrebbe speso lo Stato.
La proposta fu considerata provocatoria, e lo era. Ma metteva il dito sulla piaga.
Perciò, quando Franco mi prospetta la situazione critica della scuola statale e mi chiede conforto, posso gratificarlo solo col buonumore che mi procura l’avverarsi di ciò che aveva pronosticato chi mi ha educato e mi ha fatto trascorrere anni felici quando, dall’undicesimo al diciassettesimo anno d’età, mi liberò dall’obbligo di frequentare la scuola statale.
Pier Luigi Leoni