“Fino a pochi mesi fa questo trend scellerato della spesa era in crescita, la situazione sull’orlo del precipizio, i partiti e i loro leader in totale confusione e senza le palle necessarie per prendere in mano la situazione hanno letteralmente abdicato a favore di un governo tecnico pregandolo di salvare l’Italia.
Adesso la signora Tardani vicesindaco di Orvieto e il Sig. Frizza presidente del consiglio comunale di Orvieto armati di gonfalone del comune noleggiano un pulman e si recano a Piazza Navona nella capitale per tirare le orecchie al Sig. Monti capo di quel governo tecnico reo di fare le cose che c’è da fare. Compresi l’accorpamento dei tribunali, delle provincie, dei minori trasferimenti ecc..
Forse non si rendono conto che Orvieto non solo concorre a quei 38.000 euro pro capite di debito per i servizi primari che consuma tra pensioni, sanità , difesa e amministrazione, ma ne aggiunge altri 4.000 sulla testa di ogni orvietano per i debiti accumulati localmente : 60 milioni di mutui da pagare e tra i 15 e i 20 milioni di buco di bilancio”.
(Massimo Gnagnarini – Orvietosì 24 luglio)
Il ragionamento “montiano” e “casiniano” di Massimo Gnagnarini ha indubbiamente una certa coerenza. Ma la coerenza, data l’infinita complessità del mondo, si ottiene trascurando molti aspetti della realtà e lasciando senza risposte molti interrogativi.
Gli europei giudiziosi qualificano col gentile acronimo “pigs” (in inglese “maiali”) i Paesi mediterranei che se la passano male: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Orbene, dobbiamo riconoscere che la Germania, e i Paesi che le fanno corona, hanno dimostrato, dopo la seconda guerra mondiale e fino a oggi, capacità di garantire l’ordine pubblico e gli equilibri sociali e di gestire l’economia di mercato senza trascurare la socialità e senza compromettere pesantemente il bilancio pubblico. In altre parole, hanno dimostrato una saggezza collettiva superiore alla nostra.
Anche gl’Italiani hanno realizzato molti progressi dal punto di vista economico e sociale, ma non hanno combattuto con efficacia decisiva le mafie, la corruzione pubblica e il clientelismo elettorale.
Ma ogni popolo ha la sua storia. E quella del popolo italiano è la storia della precarietà degli assetti politici, che si è trascinata dall’inizio delle invasioni cosiddette barbariche fino a pochi decenni fa. Gli Italiani si sono formati come nazione in senso socio-culturale nel marasma degli assetti politici e nel succedersi delle dominazioni straniere. Da ciò deriva la tendenza a cercare la sicurezza nel patrimonio familiare e nella ricerca della protezione dei potenti. Noi andiamo fieri del Machiavelli, cha ha posto le fondamenta della scienza politica moderna, ma fu il Guicciardini che ci fotografò magistralmente con la sua dottrina del “particulare”. Ma ne deriva anche la radicata sfiducia nello Stato, poiché, fino all’unità d’Italia, a parte il Piemonte e il Nord-Est sottomesso all’Austria, gli staterelli peninsulari erano poveri, deboli, arretrati e in qualche modo subordinati alle potenze straniere. E, dopo l’unità d’Italia, uno Stato pasticcione si è impegolato in due guerre, in avventure coloniali folli, in una fase di semidittatura plutocratica, in una fase di dittatura totalitaria e in una fase democratica clientelare e condizionata dalle mafie e da forti gruppi di potere economici.
Gli Italiani, anche ritenendosi, in stragrande maggioranza, democratici, non hanno maturato la convinzione che la democrazia, l’economia di mercato e la giustizia sociale sono le basi per sopravvivere e progredire nel mondo contemporaneo. Ma hanno continuato a perseguire il loro “particulare”.
Gli Italiani atipici sono una infima minoranza. E comunque io ne ho incontrarti pochi nella mia vita trascorsa negli enti locali, a contatto col popolo e coi politici di paese, ma anche coi loro referenti provinciali, regionali e nazionali. Quasi tutti della stessa pasta.
Infatti all’enorme debito pubblico corrisponde un enorme risparmio privato e, data l’inefficienza della pubblica amministrazione nella gestione patrimoniale, un enorme patrimonio immobiliare male utilizzato e quindi da alienare.
Saranno queste anomalie, a detta degli economisti, che ci potranno salvare, a condizione che cambiamo metodo. I detentori di patrimoni privati, accumulati grazie alla cura del “particulare” di una o più generazioni, sono avvertiti.
Ciò non toglie che le riforme “montiane” non sono sempre giuste e chiare, anche se piacciono tanto (forse un po’ troppo) all’onorevole Casini e ai suo seguaci. In particolare quella della geografia giudiziaria. Poiché penso che il presidente del consiglio e i suoi ministri siano tutti persone intelligenti, serie e preparate, tento una mia interpretazione di una riforma abborracciata come quella delle sedi giudiziarie. Orbene, il governo non ha il tempo e il mandato di riformare la burocrazia. Ma la burocrazia gli è indispensabile per acquisire dati e istruire i provvedimenti legislativi. Ho l’impressione, anzi, conoscendo l’ambiente, la convinzione, che la burocrazia gli fornisca dati taroccati.
Non so se Franco mi potrà aiutare, ma io non ho capito il beneficio economico che apporterà allo Stato la riduzione delle sedi giudiziarie. Circolano cifre strane e notevolmente diverse l’un dall’altra. Mancano dati sui costi sociali delle varie soppressioni. La concentrazione comporterà maggiori oneri per incremento delle parcelle degli avvocati, per trasporti da parte di cittadini e dipendenti, molte ore di tempo sprecate nel traffico e conseguenti rischi. Non dico che i risparmi non ci siano, ma il governo non conosce il loro vero e analitico ammontare. Non lo conosce perché i burocrati fanno come i Perugini: “N’el so, se ’l so ’n t’el dico, se t’el dico ’n te dico ’l vero”.
Perciò ha fatto bene il vicesindaco Tardani ad andare a protestare a Roma. Il ministro ha rifatto i conti a Chiavari e quel tribunale non si sopprime più, adesso ristà facendo i conti nelle zone mafiose. Rifaccia i conti a anche a Orvieto e poi vediamo.
Pier Luigi Leoni
Certo, ogni popolo ha la sua storia. Allargando lo sguardo, si potrebbe dire anche che ogni area del mondo ha la sua storia, mentre restringendolo, si può con fondate ragioni sostenere che ha la sua storia ogni città ed ha la sua ogni famiglia e ogni individuo che l’ha composta e la compone. La cosa è cartesianamente evidente, e perciò non ha bisogno di esemplificazioni. Ma ogni tanto e’ bene ricordarcene, ed ha fatto bene Pier Luigi a ricordarcelo.
Noi italiani abbiamo la nostra storia, che ci caratterizza in positivo e in negativo, e ce la dobbiamo tenere. Guicciardini ha detto del nostro culto del ‘particulare’, Leopardi della nostra scarsa propensione a coltivare le virtù civiche e del cinismo che ci fa disprezzare anche noi stessi, Montanelli che “buoni italiani si può essere soltanto da antitaliani”. Pier Luigi dunque solo per questo sarebbe in ottima compagnia. Ma qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia con un editoriale sul ‘Corriere della sera’ è andato oltre ed ha ricordato come esista una “antica diversità” tra “Europa tedesca” ed “Europa mediterranea” (per non parlare poi dell’Europa balcanica), che non solo non va nascosta, ma va ricordata con fermezza ai nostri detrattori nordeuropei. Perché, se nel Sud-Europa l’affermazione della democrazia, a causa di condizioni storiche particolarmente difficili (ad esempio appunto: povertà diffusa, debole cultura civica, particolarismo pervicace, ecc.) è avvenuta al prezzo di una pervasiva intermediazione politica che l’ha trasformata da subito in “una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi … una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente”, nel Nord-Europa i prezzi pagati al radicamento di concezioni e di pratiche democratiche non sono stati di poco conto, solo che si pensi ad esempio ad Auschwitz. Insomma, i conti dell’Europa con la democrazia vanno fatti con lo sguardo lungo. In altri termini, vanno fatti con la storia.
Da questo punto di vista un sano orgoglio non guasta ed è anche piacevole leggere un Giuseppe De Rita che all’insegna di “Un po’ di flemma, siamo italiani” (‘Corriere della sera’ del 27 luglio) dice che è giunto il tempo “di contrattaccare sulle tre citate contrapposizioni di opinione: sarebbe cioè giusto sostenere la superiorità della tenuta di lungo periodo sul «sangue subito»; della capacità di adattamento continuato sull’angoscia da default; della continuità e coesione negli impegni collettivi sulla continua drammatizzazione delle cose”.
Bene bene, anzi, benissimo! Però … Però attenzione, perché l’orgoglio della propria storia, e della propria identità, da elemento di forza può trasformarsi in elemento di tragica debolezza se non si accompagna ad una lucida capacità di interpretare di volta in volta il nostro ruolo nel mondo. Ciò che vale sia a livello di popolo che di comunità locale.
Allora non basta arrabbiarsi con i provvedimenti del governo Monti, sia quando si tratta di tasse che quando si tratta di riorganizzazione del sistema giudiziario. Perché all’emergenza bisognerebbe non arrivarci: le riforme (in altre parole, il cambiamento razionale della realtà), quando e’ chiaro che sono necessarie, bisogna farle. Se non si fanno, la realtà si incaricherà da sola di imporre una qualche soluzione, che normalmente risulterà meno soddisfacente di quando la strada e i tempi sono liberamente scelti. Già, questo si chiama riformismo, e si fonda sulla fiducia nella ragione umana, aristotelicamente elemento distintivo del genere umano e cristianamente dono divino, e come tale nient’affatto da disprezzare.
Si dirà: “Ma com’è possibile avere fiducia nella ragione in un mondo così conciato, in un’Italia così conciata?”. E naturalmente si possono citare fatti sia antichi che recenti a sostegno della tesi dell’irriformabilità del sistema mondo e del sistema paese. Ad esempio mi viene in mente l’ incredibile vicenda dell’Ilva di Taranto o quella ancor più incredibile del blocco della zona C di Milano. Si potrebbe dire così: c’è sempre qualcuno che non fa, ma quando finalmente si trova qualcuno che fa, c’è sempre qualcun altro che disfa. Ed e’ difficile andare avanti così.
Noi, a proposito delle vicende della nostra città, potremmo dare testimonianza di qualcosa che avvalora queste considerazioni? Beh, io direi più di qualcosa. Ad esempio, a proposito del tribunale, è davvero Gnagnarini la pecora nera avendo osato dire che anche Orvieto deve rendersi conto che l’epoca delle spese pazze e dell’organizzazione irrazionale dei servizi e’ da considerare morta e sepolta? O non sono pecore nere tutti coloro che, a diverso titolo e certo con diverso grado di responsabilità, nel tempo hanno fatto poco o nulla perché ciò che oggi sta accadendo non accadesse? Sì certo, la spending review è piena di provvedimenti raffazzonati. Sì certo, oggi bisogna fare ciò che è possibile per salvare il salvabile al fine della permanenza degli uffici giudiziari nella nostra città. Ma perché non riconoscere che cambiare le cose (e lavorarci a tempo debito) non piace né a destra né a sinistra e che l’unità si trova più facilmente proprio quando si tratta di lotte di difesa e di conservazione piuttosto che di sforzo per immaginare nuove strade?
Tribunale, Vigna Grande, scuola, Provincia, sanità, sono questioni che mi suggeriscono ciascuna e tutte insieme una sola immagine, quella di una città ripiegata su se stessa, che si accorge di ciò che accade solo dopo che e’ accaduto e che alla fine, per non cadere nella disperazione, si autogiustifica o attribuendo agli altri dosi massicce di cattiveria o facendo risalire al passato (e sempre agli altri) tutte le colpe del presente. Beninteso, senza cambiare, sia nel metodo che nella sostanza. Sinceramente, questo non mi pare un fulgido esempio né di pensiero né di azione.
Termino con una confessione. Sempre più sento salirmi dentro, insieme alla ribellione per un declino che, prima che economico e sociale, mi appare essere delle coscienze e della cultura civica, la voglia di tacere. Soprattutto perché piccolezze e rancori sembrano essere oggi ancor più di ieri le fonti energetiche primarie della lotta politica. Ma anche perché è terribilmente fastidioso capire che non devi pensare, non devi proporre, non devi osare, sennò rischi di aver ragione e in quello stesso momento ciò che hai pensato e proposto sarà di sicuro boicottato. Se poi capiterà che un personaggio famoso dica e proponga le stesse cose che tu hai detto e proposto, non devi provare soddisfazione per questo, ché anzi, devi essere certo che per te sarà colpa ancor più grave. Cattivi pensieri, solo cattivi pensieri. Ma quanto lavoro c’è ancora da fare!
Franco Raimondo Barbabella