Ormai è notorio alla cittadinanza tutta come, durante la settimana appena trascorsa, per iniziativa convergente, pur nella diversità, del Sindaco Concina e di Cittadinanzattiva abbiano preso vita le prime forme di mobilitazione popolare a difesa del Tribunale di Orvieto.
Personalmente, in qualità di procuratore della citata Associazione di cittadini attivi assieme all’Amico G.P.Mencarelli, ho avuto modo di intrattenermi con una nutrita rappresentanza dell’Ordine Avvocatizio Orvietano. Tra i molti illustri componenti l’Ordine medesimo, particolare impatto morale ed emotivo lo ha avuto la conversazione intercorsa con l’Avv.to Valeriano Venturi.
Dalla sentenza dello storico Tito Livio “Cumcordia civium, moenia urbium”, divenuta il motivo conduttore della mobilitazione in atto e passando per Cesare Pavese e Italo Calvino, siamo pervenuti alla riaffermazione del principio Aristotelico della “non contraddizione” e di quello Hegeliano che tutto ciò che è reale è razionale e, di converso, che tutto ciò che è razionale è anche reale.
Per le ragioni in questi giorni ampiamente illustrate, il Tribunale di Orvieto possiede fondamenti di oggettiva razionalità per esistere e, dunque, è di stringente realtà che debba continuare ad esistere.
L’ultimo editoriale a mia firma ha concesso adito a le più svariate interpretazioni; non ne entro nel merito, lasciando a ciascuno la più ampia libertà di valutazione e di critica.
Ciò che mi preme, in verità e per verità, è racchiuso in una scelta di vita che desidero manifestare: quella di sempre meglio rappresentare e precisare i contorni, i confini e la sostanza intima dei miei convincimenti ideali sul piano di una chiara e comprensibile elaborazione concettuale e non di sola e sterile polemica, sempreché chi Vi scrive sia capace di distinguere e tenere ben separati i momenti della protesta da quelli della proposta.
La mia non è una visione identitaria china sul passato, ma è una sfida per una svolta cruciale la quale porti, all’attenzione di tutti, i quesiti che mi inducono a riflettere sulle motivazioni atte a scegliere un itinerario piuttosto che un altro. Ad oggi, per un cristiano impegnato nel “publicum officium caritatis cum dignitate”, è importante mantenere in posizione di centrale preminenza la persona: l’essere umano deve rivestirsi di nuova umanità affinché le sue azioni siano dirette realmente al bene comune.
E’ stato per me folgorante poter appurare come le diverse impostazioni politiche del cattolicesimo democratico si possano, alla fine, riunire in un disegno unitario e organico di società, ciascuna ponendo dei temi che si rendono complementari l’una all’altra senza barriere, fronti di belligeranza e fondamentalismi insensati in quanto intransigenti.
Tre domande, al momento, diventano indifferibili: la società italiana e, di conseguenza, anche quella orvietana hanno ancora bisogno dei cattolici democratici? Qual è il valore aggiunto che gli stessi possono apportare alla politica? E’ possibile far pulsare le loro idealità ideative in un sodalizio politico, a prescindere od anche senza i partiti tradizionali oramai ridotti a sepolcri residuali?.
Il ruolo dei cattolici in politica ha subìto, negli ultimi decenni, celeri evoluzioni e altrettanto repentine involuzioni. Dai tempi dell’unità in un unico partito e fino alla costituzione del PD non è cambiata l’identità del popolarismo, ma è sensibilmente diminuita la forza e la caparbietà di portare in alto le sue idee. Quasi è sembrato che quanto si reputava fondante un tempo sia, di colpo, divenuto superfluo.
In tale contesto, la visione di sussidio e di collaborazione sociale, che si è posta alla base della crescita dell’Italia post-bellica, è stata maldestramente sostituita da un egoismo di matrice liberista.
Bisogna allora riprendere, in un percorso di avveduta elaborazione concettuale, quanto richiamato dalla “Caritas in Veritate” per recuperare quei valori che gli “Uomini liberi e forti” hanno utilizzato per costruire l’Italia della democrazia e della libertà.
Il bene comune si può perseguire solo cementando le tre dimensioni organiche di cui si plasma e si compone la democrazia e, cioè, che sia rappresentativa, partecipativa e socialmente giusta.
Se il Samaritano fosse giunto un’ora prima sulla strada, forse l’aggressione non sarebbe stata consumata. Nella società odierna, purtroppo, non vi è attenzione per il prossimo ed è carente la fiducia nelle altrui culture; al contrario si vive nella solitudine o nell’isolamento autarchico, con pregiudizio ed egocentrismo, mancando la vera solidarietà che ci rende uomini liberi.
E’ necessario, dunque, che si torni ad amare l’altro prevenendo i suoi bisogni futuri, pronosticando le urgenze del domani, intuendo i venti in arrivo, giocando d’anticipo sulle emergenze collettive.
La rivisitazione della parabola del Buon Samaritano vuole far comprendere che esiste sempre una possibilità di intervenire, prima che tutto sia irrimediabilmente avvenuto e/o perduto.
A ciò deve tendere l’etica applicata alla politica: che quest’ultima sia anticipatrice degli eventi per meglio indirizzarne il corso. Non può essere la sola filantropia a dirigere le nostre azioni, quanto piuttosto un senso di speranza che si nutre della nostra fede.