Sono trascorsi svariati mesi da quando, per mero caso fortuito, ebbi modo di ascoltare un’intervista rilasciata a Lilly Gruber da Rossana Rossanda, di ritorno per poche settimane in Italia da Parigi dove ha deciso di stabilirsi per il resto dei suoi giorni.
Tra alcune ammissioni, molte omissioni e giudizi negati o non espressi su fatti e persone di italiche vicende, traspariva chiaro dall’espressione del suo volto la scolpita amarezza per il decadimento complessivo e generalizzato della nostra Penisola e, dal quale, nessun settore delle umane attività sembra essere risparmiato. Non lo ha detto, ma se avesse pronunciato il terribile anatema “Ah, Patria ingrata, non avrai le mie ossa”, non mi sarei affatto meravigliato.
Da due delle sue argomentazioni, ho tratto alcune riflessioni e considerazioni personali che mi preme concisamente portare all’attenzione delle lettrici e dei lettori.
I “mala tempora currunt”, caratterizzati da un progressivo declino delle condizioni di benessere individuale e collettivo, portano l’uomo odierno a vivere in un quotidiano stato di ansia depressiva per il vorticoso susseguirsi di bisogni ed esigenze alle quali non si riesce a far fronte se non con estrema difficoltà.
Nell’ affermazione ormai consueta, “non si arriva più nemmeno alla terza settimana”, è racchiuso tutto il dramma dei tanti, troppi connazionali in perenne affanno per l’affitto di casa e le bollette da pagare, per il tempo libero da dedicare alla cura del corpo e alla rigenerazione dello Spirito che libero più non è, per l’elevazione del proprio patrimonio culturale fortemente sentita e forzatamente messa in disparte per carenza di risorse pecuniarie disponibili.
L’angustia, la disperazione, la pungente insoddisfazione della propria condizione esistenziale generano ribellione e odio per il mondo e i suoi abitanti ed è così accecante da non permettere più di distinguere tra chi ci ha procurato del male, tra chi si è dimostrato indifferente e, infine, tra chi ci ha sinceramente amato. Anzi, il più delle volte è proprio contro quest’ultimo che si rivolgono con ferocia gli atti più abietti dell’uomo incattivito perché imbestialito, ossia divenuto fiera.
E’ il fallimento della strutturazione giuridica della società e dello Stato di diritto e, di conseguenza, è il fallimento della politica che non sa, o forse non vuole, offrire a coloro che ne dovrebbero beneficiare sistemi economico-finanziario-fiscali equi e solidali, modelli sperimentati di reale e tangibile uguaglianza civile e poi, a coronamento di tutto, categorie concettuali di effettiva costruzione della giustizia sociale che ha funzione di pacificazione delle singole coscienze e delle relazioni interpersonali.
A vedere ciò che ci circonda, sembrerebbe non esserci rimedio a tanto dissesto mentre, forse, un primo tentativo di iniziale soluzione è più vicino di quanto si possa immaginare e sembra sfuggente solo perché non sappiamo guardare oltre la punta del nostro naso o delle nostre scarpe.
E’ diffusa la convinzione che la politica sia un’attività complessa e articolata e, in effetti, lo è; ma a complicarla oltre i limiti del consentito è lo spesso inconsulto modo di agire degli operatori della politica stessa. Per farla tornare, da generica attività, ad arte nobile e sovrana è questione di riconsegnare ad essa il taglio e lo stile che le compete: uno stile austero, pacato, raziocinante e finalizzato a perseguire gli interessi generali della collettività.
Quello che non accade oggi, ma dal quale non è più lecito prescindere.
Sono consapevole che le considerazioni che precedono a molti faranno storcere la bocca in segno di disappunto, ad altri susciteranno sentimenti di indifferenza, forse per pochi saranno occasione di riflessione.
Per quei pochi è comunque valsa la pena di scrivere!.