“Orvieto chiude e il PdL gongola. Con l’aria che tira, leggere il pistolotto diffuso dal PdL orvietano inquieta, al di là dei risultati veri e dei numeri che infiorano il testo, proprio come avveniva ai tempi del centrosinistra mociano. Già il titolo che richiama il “durissimo lavoro” regalato alla città pone delle domande. Lavoro di chi? degli assessori che ci sono o di quelli che c’erano? L’unica cosa chiara è che la svolta nel risanamento è avvenuta dopo l’intervento dei “responsabili” e la fine del periodo dell’anatra zoppa, quando il centrodestra ha potuto finalmente radere al suolo quanto c’era, buttando bambino e acqua sporca. Ci dicono che ci sono frutti, ma sindacati e imprenditori lanciano gridi d’allarme e la città è in chiusura. Siamo in piena crisi in un Paese impoverito e ci dobbiamo sorbire le allucinazioni del PdL e l’assenza del Pd, sempre più litigioso e indaffarato nelle beghe interne”. (Da una nota di Dante Freddi su OrvietoSi dell’11 giugno 2012)
Debbo ammettere che anch’io, appena ho letto il comunicato del PdL a cui si riferisce il nostro Direttore, mi sono chiesto se per caso un folletto malandrino si fosse divertito a cambiar nome alla città o a confondere la mente degli anonimi autori o a confondere la mia, tanto grande in esso appare (anche a chi non ama gli eccessi di giudizio) la distanza tra le parole e la realtà.
Partiamo appunto dalla realtà. Non sono certo di quelli che criticano per il gusto di criticare, non giudico in base alle appartenenze, mi sforzo di capire e cerco di parlare a ragion veduta. Inoltre, in me è molto più forte la spinta a pensare e ad agire per risolvere problemi e migliorare la città piuttosto che a curare interessi di una parte. Anzi, mi è stato più di una volta rimproverato di essere eccessivamente critico con la parte con la quale storicamente mi sono impegnato nelle istituzioni e per contro troppo indulgente con la parte avversa. Forse è per questo che ad alcuni è sempre piaciuto mettermi ne “…la setta d’i cattivi,/ a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (Dante, Inferno, III), naturalmente a prescindere.
Dunque fin dall’inizio da parte mia nessun atteggiamento pregiudiziale nei confronti del nuovo Sindaco e della nuova Giunta. Al contrario, l’auspicio che la città ne traesse beneficio, da una parte sul piano di un mix di sana gestione del bilancio e di politica delle larghe vedute, un forte percettibile cambio di passo, come normalmente avviene quando si dà luogo ad un cambio reale di classe dirigente; dall’altra, anche sul piano di un conclamato, da lungo tempo necessario, cambiamento di cultura, di mentalità e di comportamenti della parte perdente, non solo a livello di dirigenti. Nulla di tutto questo è avvenuto. E la sensazione davvero sgradevole è che non si dovrebbe non dico dire, ma nemmeno pensare che le cose stanno così.
Non credo si tratti di cattiveria. Probabilmente è l’atteggiamento mentale che si è radicato in quel bipolarismo fasullo che ha fatto degli schieramenti contrapposti non una gara a chi pensa meglio per fare meglio, ma strumenti e occasioni per scalare quel poco di potere che può essere alla portata di chiunque sia riuscito a entrare e a restare in un qualche giro. Si tratta invece di procedure di selezione delle classi dirigenti? Non mi pare. O di ricerca ed esaltazione del merito? Mi pare anche di meno.
Se ne vuole la dimostrazione con i fatti? Credo ci sia solo l’imbarazzo della scelta. Prendiamone tre, certo non a caso: la vicenda del bilancio, quella del Centro Studi e quella di Vigna Grande.
Il bilancio. Il dato di fatto è che né il risanamento né il riequilibrio si sono verificati, e, se dura così, è facile prevedere che, almeno in tempi umani, non si verificheranno, nemmeno scontando i pesanti sacrifici già in essere. Per quanto si faccia il gioco delle tre carte, se per la spesa non si accantonano somme dovute per 1 Mln, e per l’entrata si inseriscono nella parte corrente somme non solo eccezionali e non ripetitive ma nemmeno sicure per circa 2 Mln, allora si può dire solo che gli artifici contabili c’erano prima e ci sono adesso e il riequilibrio strutturale è di là da venire. La fitta nebbia del passato non si dirada nel presente. Il resto è noia.
Il Centro Studi. Ricordo i grandi discorsi sugli sprechi del passato, gli annunci roboanti di rilancio e le nuove nomine a questo finalizzate. Ma, se in concreto prima si confluisce in un consorzio che si sa in anticipo che non funzionerà, poi, pur in presenza di un consistente interesse di soggetti italiani e stranieri (600 studenti nel corso dell’anno dalla sola America?), ci si preoccupa solo di tagliare risorse e non si fa nulla per utilizzare la vasta gamma di potenzialità che continuano ad esserci, allora l’unica cosa che avrebbe senso dire è che si vuol chiudere. Lo si vuole fare? Sì, pare che lo si voglia fare davvero, ma con una furbata all’italiana: si chiude e poi si riapre con altro nome. Così si pensa di azzerare le pendenze e di continuare come se nulla fosse ripartendo da zero. Non dico altro, non ci sono parole. Mi auguro solo che si tratti delle solite linguacce, che altrimenti non sanno come sbarcare il lunario. Se il passato era scuro, qui siamo al fondo del tunnel.
Vigna Grande. Su questa vicenda ho scritto tante di quelle volte che provo ripulsa solo a pensarci. Ma come evitarlo, se dobbiamo ragionare sul serio su ciò che ci dice la realtà rispetto al governo della cosa pubblica ad Orvieto? La sintesi è questa: ancora tre anni persi e niente in vista. Solo l’uso strumentale di pezzi di ex caserma per coprire persistenti buchi di bilancio. Niente idee, niente visione strategica, niente iniziative di qualche significato. La sentenza della Corte dei Conti dà ragione agli amministratori di RPO e torto, ma torto sul serio, al Comune (leggi chi lo gestiva prima)? Silenzio. Il Comune è stato condannato a pagare pure le spese legali perché la causa non doveva nemmeno iniziare, tanto evidente era la correttezza dell’operato del CdA di RPO? Silenzio. Gli interessati sollecitano il pagamento? Silenzio. Se si cercasse la prova delle prove sulla continuità del presente con il passato, perché cercare ancora? Eccola qua, non c’è bisogno di altro.
Questo dice la realtà. E di fronte al crudo linguaggio della realtà la propaganda è davvero una brutta cosa, perché è una maschera e allontana la politica non solo dai problemi, ma anche dal senso comune. Questa volta lo fa il PdL. Altre volte lo fa il PD. Altre volte altri. Non ci si accorge che si ottiene solo il risultato di non essere credibili.
Resta da domandarci se ancora possiamo nutrire una qualche speranza di uscire da questa situazione. Io sono uno che non si arrende facilmente, ma mi rendo perfettamente conto che la situazione è davvero sempre più scoraggiante: dopo la fine dell’anatra zoppa la maggioranza c’è ma di fatto è solo numerica; la minoranza c’è pure, ma che sia opposizione che vuole diventare maggioranza è una scommessa sempre più spostata nel tempo. E’ difficile trovare qualcosa che va come si deve. Si perdono occasioni (candidatura a città europea della cultura 2019). Si sottovalutano occasioni (giubileo eucaristico). In Regione si discute di riforme fondamentali (sanità) e noi non sappiamo quasi nulla di quale sarà il ruolo del nostro territorio nel nuovo assetto. La crisi morde, molte aziende e molte famiglie non ce la fanno, e non si vede un qualche serio tentativo di reazione per ciò che è sensatamente possibile. Si ha l’impressione di un abbandono.
Che dire di più? Dante e Pier Luigi dicono spesso “San Pietro Parenzo aiutaci tu”. Anche loro però sanno che il nostro destino è nelle nostre mani. Perciò ricordiamoci che vale sempre il detto dei nostri nonni “Aiutati che Dio ti aiuta”. Solo che bisognerà farlo prima che sia troppo tardi.
Franco Raimondo Barbabella
Il Direttore mette in campo una palla pesante e Franco la batte piuttosto energicamente. Allora, per reggere la botta, la devo prendere larga.
Un giorno di primavera del 2009 incrociai l’avvocato Guido Turreni, che mi salutò con la solita cortesia e mi fece capire che aveva qualcosa da dirmi. Così m’informò che stavano chiudendo la lista del PdL per le prossime elezioni comunali e che il mio nome, con sua meraviglia, non c’era. S’era aspettato che i miei amici della disciolta AN mi avessero inserito nella quota dei candidati loro spettante. Dissi che né mi ero proposto né ero stato interpellato. Allora si offrì di occuparsene lui. Mi sembrò cortesia accettare i suoi uffici e non nascondo che l’indifferenza degli amici di AN nei miei confronti mi aveva un po’ amareggiato. Così mi ritrovai nella lista del PdL, ma con la convinzione che la sinistra avrebbe come al solito stravinto, perché gli Orvietani basta guardarli in faccia e si capisce che sei su dieci sono di sinistra. Ed ero anche convinto che non sarei stato eletto perché la mia inguaribile riservatezza m’impedisce di andare in giro a chiedere voti, e nessuno lo avrebbe fatto per me. Del candidato sindaco, dopo aver letto di lui e averlo personalmente conosciuto, dissi e scrissi che uno così gli Orvietani non se lo meritavano. Sbagliai sulla elezione del sindaco, perché sottovalutai la capacità degli ex democristiani del PD di far dare una musata alla sinistra. Invece si avverò la profezia di un amico imprenditore, uomo di destra e tenace anticomunista, che rimproveravo perché flirtava con la sinistra. Egli mi disse senza mezzi termini che lui era un uomo pratico e che quando una macchina, prova e riprova, non riusciva a smontarla da fuori, ci si infilava e cercava di smontarla da dentro.
A parte il sindaco, le mie previsioni si avverarono. Entrai in consiglio comunale solo perché alcuni eletti si dimisero per fare gli assessori, e Carlo Perali, che mi precedeva e che non proveniva da AN, rinunciò a mio favore. Dalle urne uscì una maggioranza di sinistra, anche se pudicamente in Italia la sinistra si fa chiamare centrosinistra e la destra centrodestra.
La sinistra avrebbe potuto staccare la spina, ma furbescamente decise di lasciarla lenta in modo che, a forza di falsi contatti, l’amministrazione si bruciasse. La cosa non poteva piacermi e, con l’aiuto di amici che orbitavano nelle due aree, mi adoperai per coinvolgere la sinistra in un governo d’emergenza. Infatti pensavo, e ancora penso, che la situazione di Orvieto era talmente pesante che non se ne sarebbe usciti senza due o tre anni di unione delle forze. Dissi che la salita era dura e che la città aveva bisogno di respirare a pieni polmoni, cioè sia col polmone di destra che con quello di sinistra. L’operazione non riuscì perché prevalsero i pavidi, i troppo furbi e i faziosi. Serviva grandezza d’animo, ma gli animi piccoli erano troppi. Poi la spina fu reinserita da una operazione obiettivamente trasformistica, ma coerente con l’operazione di sabotaggio del sistema di potere della sinistra.
Io rimasi col sindaco e ci rimarrò fino a quando lui non mi chiederà di andarmene. Sono abituato a rispettare le persone e gli impegni. Ovviamente mi riservo di dire e scrivere quello che penso, di frequentare chi mi pare e di votare come voglio, a meno che non sia in ballo la carica del sindaco.
Ciò non mi rende soddisfatto né sordo ai mugugni della popolazione. E la mia principale sofferenza consiste nel dover constatare che, quando dissi che uno come Concina Orvieto non se lo meritava, ci azzeccai.
Secondo me la classe politica uscita dalle strane elezioni del 2009 non è stata in grado di valorizzare la personalità cosmopolita del Sindaco, supportandolo con ciò che egli non poteva avere: la dimestichezza con la macchina comunale e la confidenza col labirinto orvietano degli interessi, delle connivenze, delle gelosie, dei rancori, delle pigrizie e della chiusura alle innovazioni. Soprattutto non abbiamo saputo proporgli concordemente e fargli apprezzare e digerire idee di ampio respiro calibrate sulle aspirazioni della città, tali da rendere meno dolorosi i pur necessari sacrifici.
Gli assessori credo che abbiano percepito e percepiscano la situazione. Coloro che si sono dimessi hanno avuto secondo me il timore di far la figura di dilettanti allo sbaraglio. Timore che scoraggerebbe pure il sindaco se non sentisse, da uomo d’onore, la responsabilità del suo ruolo.
Tuttavia devo ricordare, per l’ennesima volta, a tutti coloro che, a destra e a manca, sono insoddisfatti dell’attuale stato di cose, che essi si possono permettere di manifestare il loro disgusto perché viviamo in democrazia. Ma è la stessa democrazia che ha consentito di eleggere liberamente questo consiglio comunale. La classe politica non è piovuta dal cielo. Sindaco e consiglieri comunali non sono marziani, ma gente venuta fuori da libere elezioni. Essi hanno il dovere di fare tutti gli sforzi di cui sono capaci per svolgere il loro compito e non possono andare a casa perché dieci, cento o mille o ventimila cittadini si lamentano. Non è scritto da nessuna parte che un consiglio comunale debba durare per forza cinque anni, ma nemmeno è scritto che debba mollare tutto perché i fischi subissano gli applausi. Mica siamo a teatro. In un comune gli attori si ritirano o per motivi personali, che non devono essere giudicati, o per viltà, che deve essere disprezzata, o per il bene supremo della città, quando esso può essere messo nelle mani di una classe dirigente migliore. Si faccia avanti il personaggio che vuole fare il sindaco, si metta bene in vista, portato sugli scudi da una forte squadra di collaboratori e plaudito da una larga parte della pubblica opinione. Ci esponga i suoi titoli e i suoi intenti e, tanto per cominciare, si rechi dal ragioniere comunale, dal quasi assessore Piergiorgio Pizzo e dal quasi ex assessore Maurizio Romiti e spieghi loro come si può chiudere il bilancio senza portare quasi al massimo l’aliquota IMU delle prime case e al massimo quella delle seconde case e delle aree fabbricabili. Naturalmente senza fare carte false (sport preferito dalla sinistra) e senza dare la colpa ai predecessori (sport preferito dalla destra). Ma lo faccia subito, perché a luglio si approva il bilancio e, se adesso si fischia, dopo si balla.
Pier Luigi Leoni