Le voci sempre più insistenti di liquidazione del Centro studi mi inducono a qualche considerazione. Non sono orvietano, abito a Chiusi e sono docente presso la Facoltà di Architettura alla Sapienza Università di Roma. Per quasi dieci anni ho seguito, in maniera del tutto disinteressata le attività del Centro. Ho anche incoraggiato mio figlio ad iscriversi al corso di Ingegneria Informatica e delle Telecomunicazioni; è stato uno degli ultimi studenti. Credo quindi di poter dire qualcosa sull’istituzione.
Vorrei partire dall’intervento di Carlo Perali pubblicato qualche giorno fa e che ho apprezzato. L’ho apprezzato ancora di più quando ho saputo che l’autore è il presidente di un’associazione commercianti. Finalmente un operatore economico che non si limita alla domanda: quanto costa e quanto ci porta in cassa? E’ questa una considerazione doverosa, ma non può essere l’unica.
Perali si chiede se il Centro studi non debba diventare un centro di formazione ed elaborazione per la messa a punto di strategie per lo sviluppo. Io credo che alla domanda si possa decisamente rispondere in maniera affermativa.
La convinzione sta proprio nelle esperienze che ho fatto all’interno del Centro studi. Alcuni giorni fa sono andato alla mostra finale del semestre degli studenti della Kansas State University del quarto anno dei corsi di Architettura e Architettura del Paesaggio. Risultati di notevole rilievo che potevano essere portati alla conoscenza e alla valutazione della città. Lo stesso si può dire dei corsi, sempre di università d’oltreoceano che si occupano di archeologia. In questo casi gli studenti guidati da qualificati docenti contribuiscono addirittura con attività di scavo. Il recente convegno sul porto romano di Pagliano ha mostrato tutta l’importanza di un lavoro di coordinamento fra istituzioni e corsi di alta formazione ospitati dal Centro studi.
Molto potrei scrivere sui risultati che sono stati conseguiti negli anni nel Master sui Centri Storici minori della Sapienza che sono stati via via offerti alla discussione e che si spera abbiano influenzato positivamente le scelte degli amministratori. Basterebbe quindi poco per coordinare le iniziative perché possano rappresentare quel centro di elaborazione e proposta che Perali ipotizza.
C’è poi da valutare quello che molti non sembrano percepire in maniera adeguata. Si pensi ad esempio al Linux User Group che è nato e si è sviluppato (senza costi per la collettività) grazie al supporto logistico del Centro studi. Forse dovrebbero essere gli stessi soci di quel gruppo a spiegare i risultati di quell’esperienza sia da un punto di vista dell’elaborazione, della formazione e della creazione di imprese. Si potrebbe dire forse lo stesso per altre iniziative che però conosco meno, come quelle relative alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute (“Sapienza”), al CERSAL (centro di ricerca epidemiologica per la sicurezza alimentare), alla Scuola di Perfezionamento in Medicina Veterinaria Preventiva, Sanità Pubblica e Sicurezza Alimentare (con l’Istituto Superiore di Sanità). Anche in questi casi basterebbe poco per mettere a sistema tali esperienze nell’impostazione raccomandata da Perali.
Mi si permetta, però di farla io una valutazione “di bottega”. I costi di avviamento del Centro studi sono stati rilevanti. Hanno però permesso di far maturare competenze interne altrettanto rilevanti. Soltanto con gli introiti delle attività remunerative si riesce a coprire circa la metà delle attuali spese di funzionamento che, a quanto mi pare di capire, si aggirano intorno ai 200.000 euro annui (se si eccettua l’affitto dell’attuale sede, che è a carico del Comune e meriterebbe un discorso a parte). Le prospettive di sviluppo sono notevoli, soprattutto per i corsi residenziali delle università straniere e si può pensare anche ad un raddoppio delle presenze.
Ma vale davvero la pena buttare via tutto? E in cambio di che cosa?