Il Comitato “Orvieto Città del Corpus Domini” è una consociazione a carattere popolare, volutamente estranea alle consuete e normalizzate politiche di palazzo e di mestiere; è dichiaratamente apartitica, fondata e rivolta alla partecipazione di tutte le persone di buona volontà, di ogni estrazione sociale, culturale e religiosa (nonché di razza, etnia, origine e residenza), che abbiano nel cuore ed a cuore la Città di Orvieto ed il suo Territorio di riferimento; sia quello geostorico dell’antico Contado e “Territorio di Orvieto” – riscontrabile dalle fonti documentali e cartografiche antiche – sia quello moderno e attuale, compresa ogni possibile relazione ed interazione, diretta o indiretta, anche pregressa, con realtà territoriali contermini e non. Il Comitato “Orvieto Città del Corpus Domini”, non ha finalità di lucro e si pone quale obiettivo principale la promozione, la valorizzazione di «Orvieto Città del Corpus Domini» attraverso la divulgazione e la diffusione della storia, delle tradizioni e dell’identità culturale territoriale orvietana in quanto luogo geografico storico, culturalmente identitario.
(www.orvietosi.it – 7 giugno 2012)
Traccheggiano le istituzioni, si muovono i cittadini. La concessione del biennio giubilare ha scosso due città, Orvieto e Bolsena, i cui territori, già all’inizio del primo millennio avanti Cristo, erano legati da quella che gli studiosi chiamano cultura villanoviana. Quegli antenati utilizzavano il ferro e costruivano razionali capanne sulla riva del lago di Bolsena e alle pendici della rupe orvietana. Essi producevano ceramica robusta e decorata, cremavano i defunti e riponevano i residui in vasi biconici, che avevano forma identica alle zuppiere di ceramica che ancora girano nelle nostre case. E forse anche allora non si trattava che di zuppiere multiuso. Poi seppellivano le urne, in campi ad esse riservati, dentro pozzetti nei quali ficcavano anche qualche suppellettile. Cominciava la religione e si affermavano i costumi che avrebbero caratterizzato i successori Etruschi. Costoro salirono sulla rupe, dove costruirono una potente città (Velzna in etrusco, Volsinii in latino) e, nella valle del lago, si ritirarono dalla riva per edificare quello che fu un avamposto di confine della Orvieto etrusca, dove sarebbero stati accolti i profughi orvietani, quando, nel 264 a.C., i Romani avrebbero completato la conquista dell’Etruria e raso al suolo la pericolosa e tenace Orvieto. Silvio Manglaviti, animatore nel nuovo comitato e di molte iniziative per la valorizzazione delle radici dei Tusci, insiste opportunamente sulla sacralità dell’area orvietana, dove probabilmente si trovava il Fanum Voltumnae, il santuario panetrusco, sede di raduni religiosi, politici e sportivi. Le recenti scoperte archeologiche nei pressi di Bolsena, avvalorano l’ipotesi che, dopo la distruzione di Orvieto, il Fanum Voltumnae sia stato riedificato vicino a Bolsena, dove ormai abbastanza pacificamente si ammette che furono deportati i superstiti orvietani, e dove gli Etruschi, ormai da tempo romanizzati nella lingua e nell’assetto politico e sociale, ma non ancora cristianizzati, celebravano ancora nel quarto secolo d.C. i loro raduni religiosi e sportivi. Quindi ci sarebbero ben due Fanum da riportare alla luce.
Questo per dire che il biennio giubilare è anche un’occasione per riflettere sui legami trimillenari di Orvieto con Bolsena, di fronte ai quali le divisioni amministrative diventano secondarie e i campanilismi appaiono sempre più ingenui. Sarà l’occasione per sradicare l’errata opinione, molto diffusa a Bolsena, che il duomo di Orvieto, gloria della città medievale, sia stato edificato grazie al “furto” delle reliquie del miracolo di Bolsena. Secondo questo pregiudizio, se il Sacro Corporale fosse rimasto a Bolsena, il duomo sarebbe stato costruito lì. In effetti, ai tempi del miracolo e in quelli successivi, Bolsena era un modesto borgo, poiché la bella e fiorente città romana era decaduta a causa della permeabilità della Valdilago alle invasioni barbariche. Invece Orvieto, anche grazie alla sua posizione naturalmente difendibile, era uscita dalla sua inconsistenza dell’epoca romana ed era ormai un comune libero e ricco. Bolsena può invece vantare un illustre passato in epoca romana, nonché la gloria del miracolo eucaristico e la capacità di aver saputo valorizzare le sue risorse naturali diventando un centro turistico importante e vitale. Orvieto può vantare il suo potente ruolo in epoca etrusca e nel Medioevo e la dotazione di monumenti insigni, tra i quali quella che molti considerano la più bella chiesa del mondo.
Quindi è auspicabile, perché così suggerisce, anzi impone, la storia, che Orvieto e Bolsena affrontino con unità d’intenti e sincronismo il biennio giubilare. Bolsena si rassegni a riconoscere il duomo come gloria orvietana, giustamente rivendicando come gloria propria il SS. Corporale che gli Orvietani, a loro cura e spese, hanno degnamente riposto nello splendido reliquiario e nella stupenda cappella. Prendano atto i Bolsenesi, con serenità e rispetto, che il papa Urbano IV (che era francese e che a Orvieto ci stava perché vi era costretto dalla situazione di Roma) fece trasferire le reliquie da Bolsena a Orvieto col proposito di valorizzarle e non per il gusto di “rubarle”. Tornerebbe utile anche una riflessione sui molteplici miracoli eucaristici e sul loro modesto impatto sul culto proprio a causa della modesta ubicazione delle reliquie. Se dunque Bolsena ha fornito involontariamente, ma oggettivamente, un’opportunità a Orvieto, si riconosca agli Orvietani il merito di non aver sottovalutato tale opportunità.
In questo discorso Todi fa la figura del terzo incomodo, sebbene, facendo parte della stessa diocesi, non può essere trascurata dalle autorità religiose nelle prospettive che si aprono col biennio giubilare. Ma Todi, con la storia di Orvieto e di Bolsena, ha poco a che fare. Emerge ancora una volta quello che fu un errore della Santa Sede quando volle razionalizzare i territori diocesani senza tener conto che Todi si trova al di là del Tevere, nell’antico territorio degli Umbri, dove le antiche cesure hanno lasciato tracce che non è prudente trascurare.
È per questo che, se il biennio giubilare riapre la prospettiva del santuario eucaristico Orvieto-Bolsena, può legittimarsi anche la prospettiva di una diocesi a regime speciale Orvieto- Bolsena, come è d’uso nei grandi santuari. E non mancherà una diocesi umbra che si riterrà onorata di accogliere l’illustre città di Todi che, da parte sua, certamente non rimpiangerà la diocesi attuale.
Pier Luigi Leoni
Il tema del giubileo eucaristico che affrontiamo di nuovo questa settimana, mentre ci consente di ragionare sulla prospettiva del santuario eucaristico, ci spinge giustamente a mettere a fuoco le comuni radici storiche di Orvieto e Bolsena (che io però, come dirò dopo, allargherei alla vasta area interregionale umbro-toscano-laziale in cui siamo inseriti), a riflettere sul rapporto creativo del presente con il passato ed a stimolare all’azione per quanto possibile classi dirigenti da troppo tempo chiuse in stanche e limitate visioni localistiche. Prendo dunque in esame i tre aspetti che ho appena accennato.
Sul primo, le comuni radici di Orvieto e Bolsena. Non mi sento di aggiungere nulla alla puntuale ricostruzione storica che ha fatto Pier Luigi, dall’epoca villanoviana a quella etrusca e romana, fino a quella medioevale, ma, come ho detto, allargherei lo sguardo alla vasta area a confine tra Lazio, Umbria e Toscana. Si tratta infatti di una storia che ruota, fin da epoca remota, non solo intorno al lago, ma anche intorno al fiume e alle strade. Parlo del sistema Tevere-Paglia, del porto fluviale di Paliano, della Via Francigena, ecc. A mio avviso una tale prospettiva di analisi ci consente di non commettere l’errore di riprodurre i localismi nel mentre tentiamo di uscirne. Infatti, com’è evidente, l’allargamento di confini di un’area chiusa darebbe comunque luogo ad una prospettiva che, per avere un fondamento geografico un po’ più largo, non perderebbe solo per questo la sua natura di visione inevitabilmente povera di spessore, che è la condizione tipica di tutti i localismi.
Sul secondo aspetto, il rapporto del presente con il passato, c’è da dire innanzitutto che, ogni volta che per qualche ragione siamo spinti a riscoprire il nostro passato, ci rendiamo conto di quanto sia prezioso il patrimonio che ci hanno lasciato le generazioni che ci hanno preceduto sulla scena del mondo, a partire proprio da quella piccola sezione di esso che conosciamo apparentemente meglio perché ci viviamo. Io credo allora che il tema che dobbiamo svolgere sia il seguente: come trasformare l’occasione del giubileo eucaristico in un evento che non nasce e finisce nel biennio 2013/2014, ma si proietta ben oltre, perché, mentre è legato all’ambito delle due città direttamente coinvolte, ne esalta però la natura di luoghi del mondo, in quanto lì si custodiscono messaggi e valori universali in cui individui e comunità di culture diverse e di diversi orientamenti religiosi si possono riconoscere e da cui si possono sentire accomunati. Il biennio giubilare può diventare il momento in cui si struttura una prospettiva nuova e permanente. In questo modo il passato non proietta sul presente la sua ombra, non è un peso e un problema, perché al contrario diventa fonte di ispirazione per la continuazione della vita, e fa sentire che il futuro c’è perché il presente sa riscoprire e valorizzare le sue radici profonde, più vere e più solide.
Ed eccoci al terzo aspetto, la spinta all’azione per classi dirigenti stanche e spesso chiuse in un asfittico localismo. Pier Luigi espone in modo esemplare appunto i limiti del localismo nello stesso momento in cui, invitando orvietani e bolsenesi ad affrontare “con unità d’intenti e sincronismo il biennio giubilare”, indica come compito necessario che “Bolsena si rassegni a riconoscere il duomo come gloria orvietana, giustamente rivendicando come gloria propria il SS. Corporale”. E’ evidente che la mentalità popolare spesso costituisce un limite d’azione per classi dirigenti troppo sensibili al modo di pensare diffuso e consolidato, ma altrettanto spesso può accadere che la tendenza conservatrice del popolo diventi una buona scusa per non fare, o meglio, per non pensare e non tentare nemmeno di ipotizzare un qualche movimento di realtà. Ora invece è chiaro che siamo di fronte ad una grande occasione per darci una bella mossa e per scrollarci di dosso questa patina vecchia, di zona che, per essere straordinaria in quanto a storia e cultura, di per ciò stesso non dovrebbe fare altro che accontentarsi e attendere gli eventi che le cascano addosso, finiti i quali si ritiene anche finito il particolare compito di governo che ne deriva, quando addirittura non si ritenga assecondato e compiuto lo stesso destino.
Se questo accadesse, non sarebbe certo la prima volta, e perciò non mi dilungo. Ma questa volta non deve accadere, perché di fatto si ripropone all’improvviso la possibilità non solo di tessere di nuovo la trama di aspirazioni e ragionamenti di lungo periodo, ma di affrontare progettualmente, e forse ad un livello organicamente sufficiente e coordinato con quella, le questioni di più stretta attualità e però parimenti essenziali per il nostro futuro. Mi riferisco da una parte al bisogno di ritrovare il senso di un destino comune della nostra città con il suo vasto territorio di riferimento, un’idea portante che diventi una vera e propria MISSION in cui credere e su cui impegnarsi con operazioni di breve e di lungo periodo, e dall’altra alle questioni di strategia nel portare in atto le potenzialità di sviluppo, fino ad oggi affrontate con la logica dello stop and go, alternanza di periodi di slancio progettuale e di altri di improvvisazione, con conseguente rigetto di quanto già pensato o avviato o fatto.
In questo senso ritengo essenziale trovare il modo di mettere insieme energie intellettuali e forze dinamiche della società che comprendano bene l’occasione che abbiamo di fronte. Si impone sguardo lungo e mente aperta. In particolare, bisogna assumere l’ottica strategica del superamento delle barriere amministrative per generare processi di cambiamento come minimo interregionali. Allora, oltre a mente aperta, occorrono anche vaste alleanze.
Pier Luigi suggerisce un nuovo disegno territoriale per l’attuale diocesi. Non sono in grado di seguirlo su questa strada: non ne ho le necessarie competenze. Mi permetto però di dire: attenzione a non dare nemmeno l’impressione di voler fare della storia e della geografia una ragione per nuove separazioni. Capisco il senso del suo discorso con riferimento alla prospettiva del santuario eucaristico, ma credo che sarebbe un problema se se ne dovessero dedurre conseguenze sul piano del governo generale del territorio. Da questo punto di vista non abbiamo bisogno di ambiti più ristretti e omogenei, ma di sinergie ampie e forme di governo meno sbriciolate. Se avvenisse il contrario, avremmo come risultato una sconfitta sicura, un futuro negato. Perché? Ma perché il nostro spazio é il mondo. Ce lo dicono le due città. Ce lo dice il contesto. Ce lo dice la storia. Ce lo dicono “Orvieto città del Corpus Domini” e il giubileo eucaristico. Sta a noi esserne convinti e sta a noi fare in modo che gli altri lo riconoscano.
Franco Raimondo Barbabella