“Alberto Moravia, durante tutto il corso della sua attività letteraria, a più riprese ha affrontato il tema dell’indifferenza … elevando ad aporia dialettica la constatazione secondo la quale gli italiani, o perlomeno la maggioranza di essi, sarebbero un popolo di indifferenti…. Il suggerimento, che mi sembra di poter esternare, è quello di non essere indifferenti agli indifferenti … Vanno, invece, affascinati, stimolati, interessati!…. La conclusione, che mi permetto di sottoporre all’attenzione riflessiva della pubblica udienza, può sintetizzarsi nella seguente immagine: sottrarre gli indifferenti dalla loro condizione di cefalopodi, cioè di coloro che strisciano con il cervello e ragionano con i piedi” (Da un corsivo di Mario Tiberi su OrvietoSi del 28.05.2012)
La frase che il Direttore ci propone di commentare questa settimana è tratta da un bel corsivo di Mario Tiberi il cui senso si comprende già dal titolo: “La nostra: una società truffata dal raggiro dell’indifferenza”. Il nostro amico coglie e analizza da par suo un aspetto dei comportamenti umani che, se è vero che caratterizza innanzitutto il piano individuale della vita, è non di meno diventato un tratto tipico della nostra epoca.
Egli cita opportunamente Moravia, che usa il concetto di indifferenza per descrivere il deserto di sentimenti di una famiglia borghese degli anni venti del novecento, e naturalmente Nietzsche, che con il suo nichilismo (assoluta negazione di ogni assolutezza), indica appunto l’approdo della modernità e quello che sarebbe diventato un aspetto distintivo dell’occidente nel secolo appena trascorso. Soprattutto, mi pare che egli intenda sottolineare il raggiro per cui, se la società è permeata di indifferenza, chi gestisce il potere è sottratto di fatto al controllo democratico, con la conseguenza che, quando ci si accorge dei guai che ne derivano, in genere è troppo tardi, e non resta altro che la protesta sterile e il lamento. La sua conclusione è che l’indifferenza va combattuta (“non essere indifferenti agli indifferenti”) perché, dal piano individuale a quello sociale, ammorba la vita di tutti.
E’ singolare (ma, se si va a fondo, solo apparentemente) che nello stesso giorno Pier Luigi, con un altro corsivo non meno interessante di quello di Mario, dedicato però in modo più esplicito specificamente alla situazione orvietana, abbia parlato di “una città che affoga nel suo rancore”. Egli sostiene, ritengo giustamente, che qui da noi c’è un particolare radicamento del particolarismo e della faziosità, con il che di fatto si impedisce un uso intelligente delle straordinarie potenzialità del territorio e si ostacola ogni tentativo serio di soluzione della crisi che ci attanaglia.
Le due posizioni non sono affatto divergenti, giacché nell’effettualità dei modi di pensare e di agire l’indifferenza si sposa perfettamente con il culto del ‘particulare’. Faziosità e rancore ne sono la logica deduzione. Va notato poi che entrambi i comportamenti (indifferenza e culto del ‘particulare’) sono presenti nelle classi dirigenti in quanto diffuse nel popolo che le esprime, e il problema di conseguenza non è tanto stabilire se da qualche parte c’è innocenza (ed è ovvio che c’è) e chi ne è portatore (ed è ovvio che c’è), quanto come si esce da questa situazione. Di ciò vorrei dunque discutere.
Parto da lontano, ma arrivo rapidamente al dunque. Jean-François Lyotard ha definito postmoderna la condizione dell’uomo occidentale contemporaneo, in quanto l’epoca che viviamo è fondamentalmente caratterizzata dal venir meno del pensiero totalizzante delle grandi costruzioni metafisiche, che, andando all’osso, parlavano di progresso lineare, inevitabile prevalenza dei comportamenti razionali, stabilità delle istituzioni, ecc. Ne è derivata la convinzione che siamo entrati ormai in una fase del tutto nuova, il cui carattere possiamo ritenere espresso compiutamente da due intellettuali provenienti da aree culturali diverse e però convergenti sul punto cruciale che qui ci interessa. Si tratta del filosofo francese Paul Ricoeur, fondatore dell’ermeneutica fenomenologia, e del sociologo e filosofo polacco, di origini ebraiche e con cittadinanza inglese, Zygmunt Bauman, noto per la sua teorizzazione della società postmoderna come società liquida.
Dice Paul Ricoeur in un’intervista: “Allora io credo che la requisitoria della filosofia attualmente si debba articolare su due punti: sulla nozione che la crisi non è passeggera, ma è come una condizione permanente della nostra esistenza e che, in secondo luogo, il conflitto fa anch’esso parte – non soltanto il conflitto d’interessi ma anche quello di idee fanno parte – della condizione moderna o post-moderna, come la si vuol chiamare. Se la si chiama moderna è perché si crede di poterla unificare un giorno mediante la ragione; post-moderna è l’idea che la crisi è una maniera d’essere per tutti noi. Se mi permette di terminare con la philìa aristotelica, essa consiste oggi nell’apportare uno spirito di amicizia nel conflitto. … E’ questo che i filosofi possono apportare: una sorta di generosità nella discussione non disgiunta dall’esigenza del rigore” (in E.M.S.F., Problemi attuali dell’etica).
Dice a sua volta Zygmunt Bauman, polemizzando contro la tendenza al “pensiero unico” connessa con il neoliberismo radicale: “Penso che la cosa più eccitante, creativa e fiduciosa nell’azione umana sia precisamente il disaccordo, lo scontro tra diverse opinioni, tra diverse visioni del giusto, dell’ingiusto, e così via. Nell’idea dell’armonia e del consenso universale, c’è un odore davvero spiacevole di tendenze totalitarie, rendere tutti uniformi, rendere tutti uguali. Alla fine questa è un’idea mortale, perché se davvero ci fosse armonia e consenso, che bisogno ci sarebbe di tante persone sulla terra? Ne basterebbe una: lui o lei avrebbe tutta la saggezza, tutto ciò che è necessario, il bello, il buono, il saggio, la verità. Penso che si debba essere sia realisti che morali. Probabilmente dobbiamo riconsiderare come incurabile la diversità del modo di essere umani, si può essere davvero persone in tanti tanti modi e questa è una benedizione” (Zygmunt Barman, Intervista di Luciano Minerva – RaiNews24 – 2003).
Ecco, io penso che queste riflessioni ci riguardino, qualsiasi cosa facciamo e in qualsiasi luogo abbiamo scelto di vivere. E lo penso perché ritengo positiva la caduta delle grandi costruzioni metafisiche che nell’epoca moderna hanno impastoiato l’umanità inquadrandola in rigidi schemi mentali e politici, con le drammatiche conseguenze che hanno segnato il novecento e proiettato la loro ombra fino ai nostri giorni.
In altre parole, ritengo positiva la “crisi delle certezze” con cui si è concluso il novecento. Basti dire che la tendenza che ne è derivata a prendere esclusivamente “impegni che non impegnano” (non-binding commitments, secondo l’espressione di Robert Nozick) non equivale necessariamente a rinunciare a priori ad ogni forma di coerenza fino alla completa irriconoscibilità della propria linea di pensiero e di azione, ma al contrario può significare capacità di tenersi lontani da vincoli ideologici, essere pronti ad adeguare ai mutamenti di situazione i propri criteri di giudizio e di scelta. In definitiva, poiché siamo appunto nel campo delle scelte, una lettura dell’incertezza come conquista piuttosto che come sconfitta può risultare stimolante, e l’esercizio del principio di responsabilità piuttosto che il suo contrario può essere una bella sfida. Il mondo è plurale, le società sono plurali e le persone sono responsabili per loro stesse e per gli altri nel costruirsi il futuro.
Concludendo. Sappiamo che bisogna combattere una battaglia dura e lunga, perché si tratta di ricostruire un tessuto culturale oggi sbiadito anche nei suoi colori fondamentali. E dobbiamo farlo nei nostri luoghi di vita. Dunque, mentre dobbiamo accettare e valorizzare le differenze, dobbiamo nel contempo affermare il valore primario del bene comune e della ricerca dei fondamenti che giustificano l’essere una comunità dotata di visione e di scopi condivisi. Per questo, se vogliamo essere concreti, è nostro dovere contrastare i comportamenti segnati dall’indifferenza, che nei fatti fa il paio con la faziosità e il rancore.
Hannah Arendt ha scritto: “… dove tutti mentono riguardo ad ogni cosa importante, colui che dice la verità, lo sappia o no, ha iniziato ad agire” (in Verità e politica). E’ difficile trovare parole più emblematiche per la nostra rotta.
Franco Raimondo Barbabella
Quando Franco pende il largo con le riflessioni sul Novecento non posso che seguirlo con attenzione e rispetto, ma non posso dimenticare il porto orvietano al quale sia lui che io dobbiamo fare ritorno con un carico di pensieri utili a risolvere qualche problema. E mentre Franco scarica il suo prezioso bagaglio, io devo scaricare il mio, altrimenti non c’è partita. Ebbene, quando si ragiona di Novecento, non posso fare a meno di pensare con spavento che, proprio in quel secolo, la specie più intelligente del pianeta ha sviluppato un progresso tecnico strabiliante e lo ha usato per costruire bombe più che sufficienti per far scomparire il genere umano. Quelle bombe, a migliaia, sono avvitate a missili intercontinentali collocati dentro i bunker, sugli aerei e sui sommergibili atomici in giro per il mondo, e sono sempre pronte per essere usate. Chi può premere i bottoni per far saltare il mondo non lo fa finché ha la testa a posto. Ma quanti uomini potenti nella storia hanno fatto cose da pazzi? Non solo, ma la “scimmia saccente” sta sovrappopolando il pianeta, lo sta inquinando, lo sta svuotando delle risorse minerali, lo sta desertificando, sta modificando il clima. Mezzo mondo muore di fame e l’altro mezzo sta male perché mangia troppo. E l’uno e l’altro vanno matti per le droghe. Non è per questo che sono saltati i sistemi filosofici che credevano di aver trovato il bandolo per assicurare le “magnifiche sorti e progressive” del genere umano? Di fronte a tale scempio, non solo cascano le braccia, ma anche la fiducia nell’intelligenza umana. C’è qualcosa che non va nel cranio della “scimmia saccente”. La Chiesa lo chiama peccato originale, ma non è politicamente corretto parlarne.
Certo, la diversità delle opinioni è connaturale agli esseri umani ed è il fondamento della democrazia, il più sofisticato dei sistemi politici. Un sistema che piace tanto ai poveri perché dà loro spazi di libertà e protezione giuridica per poter aspirare a diventare ricchi. E piace anche ai ricchi perché i poveri, in virtù delle loro speranze, rinunciano a impiccarli. La nostra democrazia continentale, nazionale, regionale e comunale, sebbene imperfetta, è un bene prezioso. Ma lo stiamo adoperando bene?
Poiché al di fuori della democrazia c’è molto di peggio, vogliamo cercare di utilizzarla meglio? È vero che il confronto di idee diverse è il sale della vita e anche della democrazia. Anzi, le idee sono diverse non solo tra individui, ma nella vita dello stesso individuo. Un mio conoscente, quando lo sfottevano perché ogni tanto cambiava partito, rispondeva che solo i matti hanno le idee fisse. E il bene comune, quello che preme a Franco, a me e a tutte le persone di buona volontà, dov’è? È dove convergono le persone che riescono a estraniarsi dagli interessi egoistici (obliti privatorum publica curate = nel curare gli affari pubblici, dimenticatevi di quelli privati) senza per questo perdere il consenso. E qui non posso evitare di far ricorso al concetto di carisma. Anche in democrazia le persone carismatiche sono indispensabili. Orvieto ha un disperato bisogno di figure carismatiche, ma ha la tendenza a distruggerle, possibilmente prima che si manifestino. Perché questa follia autolesionistica? Se non m’intimorisse la competenza filosofica di Franco, azzarderei l’ipotesi che questa strana conformazione della rupe determini quella che gli inglesi chiamano TIS (tiny island syndrome) o small island syndrome, cioè sindrome della piccola isola. Non mi chiedete di che cosa precisamente si tratti, ma senz’altro non è una cosa sana.
Dall’inglese passiamo al milanese: «Tiremm innanz!».
Pier Luigi Leoni