Nell’unica casa che possiedo, piccola e ricevuta in eredità, feci incidere il motto latino «concordia parvae res crescunt» che letteralmente significa «nella concordia anche le piccole cose crescono». Si tratta della prima parte di una frase di Sallustio. L’altra parte recita «discordia maximae dilabuntur», cioè «nella discordia anche le cose più grandi si sfasciano».
Voleva essere un monito anzitutto a me stesso, ma anche a mia moglie e ai miei figli.
Mi sto rendendo sempre più conto che quel monito universalmente valido sia particolarmente opportuno per la nostra città.
Quando si discute, in famiglia o tra amici, sulle faziosità che ammorbano l’aria in Orvieto, esce fuori sempre la frase sconsolata che “tutto il mondo è paese”. Invece non è così. Non è vero che tutte le cittadine di 20.000 abitanti nel mondo, in Europa e in Italia, siano invischiate in una crisi così grave, e soprattutto non è vero che ovunque la destra dia tutta la colpa alla sinistra e viceversa e che, sia all’interno della destra che della sinistra, una parte dia la colpa all’altra.
Ma, cosa ancora più grave, chi in Orvieto accusa un’altra parte ci crede davvero e prova un vero sentimento di disprezzo e, non raramente, di odio.
Come non ricordare le parole di Dante sui “Monaldi e Filippeschi”, che, insieme ai Montecchi e ai Cappelletti di Verona, davano scandalo, nel Milletrecento, a tutta l’Italia?.
Ebbene, le fortune di Orvieto sono del tutto eccezionali: la collocazione nel cuore dell’Etruria, dove il clima mite, i terreni fertili e il vantaggio dell’orografia collinare, nonché la vicinanza al mare e i contatti con le civiltà mediterranee, fecero fiorire quello splendido fenomeno che fu la civiltà etrusca, che valorizzò e trasmise ai Romani le civiltà orientali; la rinascita, nel Medioevo, grazie alla inespugnabilità della Rupe, e la creazione di un vero e proprio stato che si estendeva fino al Mare Tirreno; la collocazione attuale sulle grandi infrastrutture di comunicazione della penisola italiana che offrono, in sovrabbondanza, occasioni di sviluppo.
Che una cittadina del genere debba dibattersi in difficoltà finanziarie ed economiche con un comune indebitato, in proporzione, molto più della Grecia e con la crisi di quelle poche industrie che erano riuscite a nascere e a sopravvivere, fa piangere il cuore.
Né basta dare la colpa al mondo, all’Europa e alla Regione Umbria. Il difetto non può che stare nel manico. E il manico siamo noi con le nostre ottuse fazioni.
Quando ho cercato di spiegare ai miei amici del centrodestra che gli amministratori della sinistra non erano stati un branco di imbecilli e di malfattori, e quando ho cercato di spiegare ai miei avversari del centrosinistra che il nuovo sindaco era tutt’altro che uno sprovveduto, pochissimi mi hanno preso in considerazione e mi sono trovato di fronte a due muri insormontabili.
Avevo ipotizzato, insieme a un gruppo di amici, che un accantonamento delle fazioni, valorizzando un personaggio come Toni Concina (colto, esperto, intelligente e di mentalità cosmopolita) e chiamando a collaborare elementi come Franco Raimondo Barbabella (sindaco nel periodo della maggiore creatività della sinistra e dirigente scolastico di eccezionale successo) e come Giuseppe Germani (uomo efficiente e brillante nel suo lavoro, nonché onesto e avveduto nella sua esperienza politica) e altri che non nomino, ma che esistono a destra e a sinistra, si poteva portare Orvieto fuori dal baratro.
Fummo ascoltati quel tanto che basta per sabotare e far saltare quella che era l’unica soluzione ragionevole. Ma non per stupidità, come sarebbe comodo pensare, ma per faziosità rancorosa che chiude le vene del cervello.
Prevalse l’odio, che altro non è se non la paura di fare i conti con la propria miseria.
Quindi continuiamo ad aspettare Godot, che altro non può essere se non la luce in fondo al tunnel di una umiliante e ridicola faziosità.
San Pietro Parenzo, aiutaci tu, direbbe Dante Freddi. Comincio a convincermi che sia l’ultima speranza.