«Tutti sono strani, tranne io e te. E, se ci penso bene, qualche volta sei strano pure tu». Mi viene in mente questa vecchia battuta quando penso alla fissazione mia e di Franco R. Barbabella di cercarci e frequentarci da una vita e nel trasferire sul web questo bisogno di dialogo che non è solo amicizia, ma qualcosa che l’amicizia nutre e rafforza.
Ma non voglio scendere nell’intimità dei sentimenti, per rispetto dei venticinque lettori che ci seguono. Essi comprendono che se da centotrentacinque settimane ci confrontiamo sul web non è solo per reciproca soddisfazione. In qualche modo vogliamo bene pure a loro e cerchiamo di dimostrarlo con un servizio di approfondimento e di proposta che ha come fine i bene di tutti.
Il recente (e rarissimo) intervento fuori rubrica di Franco dimostra, secondo me, che «ciascuno porta il peso della sua piccola storia», come scrive incisivamente Vittorio Messori nell’Inchiesta sul cristianesimo. Senza uscire dal campo dell’impegno pubblico, pesa su Franco l’esperienza positiva, e a tratti esaltante, del progetto Orvieto. Così come l’esperienza negativa dell’epilogo della sua vicenda di sindaco, quando fu impastoiato dal suo partito, perché egli rischiava di diventare un personaggio di livello nazionale senza la richiesta attitudine a lisciare le persone giuste. E così come l’ancora ignoto esito dell’appassionato lavoro svolto nella società RPO per la valorizzazione di Vigna Grande. La sua insistenza sulla progettualità e sulla inadeguatezza della classe dirigente non posso non condividerla, ma «il peso della mia piccola storia» e il mio ruolo di consigliere comunale mi porta a suonare un altro spartito. Nella mia vita professionale sono sempre stato il più vicino consulente e il primo esecutore di amministratori comunali che il popolo, di volta in volta, sceglieva e m’imponeva. È inutile che dica che non posso avere una grande considerazione della saggezza popolare. Ho avuto spesso a che fare con amministratori intelligenti, capaci e onesti, ma anche con individui assolutamente non raccomandabili. Ma con gli uni e con gli altri ho costantemente verificato quanto sia sacrosanto che l’orgoglio sta in cima a tutti i peccati («Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente, il cuore che medita disegni iniqui, i piedi che corrono frettolosi al male, il falso testimone che proferisce menzogne, e chi semina discordie tra i fratelli.» Proverbi 6:16-19). Le circostanze mi hanno quindi costretto a prendere l’abitudine di cercare di smontare l’orgoglio dei capi non con prediche e ammonizioni, non ritenendomi il loro cappellano, ma con continue provocazioni. E le provocazioni consistevano nel mettere in evidenza problemi da risolvere e nell’indicare soluzioni ragionevoli. Il mio gioco era di costringere i miei interlocutori ad elaborare idee generali per contestare i miei suggerimenti o per accettarli nel quadro di una visione generale della quale si sentissero autori. A volte il gioco riusciva, a volte no.
Questa abitudine non le me la posso togliere neanche adesso. Sono un semplice consigliere comunale di maggioranza e chi effettivamente comanda vorrebbe che stessi lì buono a metter qualche ciliegina sulle scelte del sindaco e degli assessori e ad alzare disciplinatamente la mano destra. Fin dal primo giorno della consiliatura dissi al sindaco, agli assessori e ai colleghi che, essendo consigliere, avrei dato i consigli che mi sarebbero stati richiesti, altrimenti li avrei dati lo stesso.
Spero di essere stato coerente. E spero di essere coerente anche sulla destinazione dell’ex ospedale. Franco sa che non mi aspetto l’applauso del sindaco, della giunta, del consiglio e nemmeno della generalità della popolazione. Ma pretendo che mi dicano chiaramente dove, come e quando vogliono affrontare il problema degli anziani e tutti gli altri problemi. Se mi rispondono «stiamo lavorando», «stiamo studiando», «stiamo facendo il possibile», non mi basta. Se basta alla popolazione, peggio per lei. Ma oggi non so e non posso fare altro. E domani non lo so.