Lo scorrere inarrestabile delle alterne vicende della vita, quando non è condizionato da frenesie o da artificialità, possiede cadenze lente e ritmate, quindi più umane, tanto che il tempo così riumanizzato prolunga il suo trascorrere oltre se stesso.
Capisco che tale affermazione, di getto lanciata nella mischia della dialettica imponderata, rischia di peccare di superficialità e abbisogna, dunque, di una qualche precisazione e di un “quidquid pluris” di approfondimento.
Per avventurarsi in detto terreno di dissertazione così ricco di insidie e di sabbie mobili, è necessario quantomeno bussare alla porta del palazzo dell’etica, intesa quale disciplina filosofica in grado di indagare sulla morale razionalità o meno dei comportamenti umani e, conseguentemente, rendersi disponibili ad aprire a chi ha bussato e offrirgli la visuale chiara e nitida dei suoi arredi e dei suoi arazzi.
Il palazzo, o più semplicemente, la “Casa dell’Etica” esiste davvero non solo nella sfera della metafisica, ma anche in quella meno immateriale della realtà pratica; siamo noi, spesso distolti dagli affanni del quotidiano, che non ci avvediamo della sua presenza, che non bussiamo alla sua porta, che ci priviamo dell’orientamento rappresentato dall’essere essa stessa la stella polare delle coscienze e, così atteggiandoci, la neghiamo e se anche in minima parte l’abbiamo conosciuta, pur involontariamente, la rinneghiamo.
La mancanza dell’etica o un’etica povera possono dipendere sia da una carenza della razionalità pensante e sia da un suo progressivo inaridimento; quest’ultimo può, a sua volta, essere causato da un’idea forse distorta del tempo al quale, in un’ottica paranoica, vengono fatte assumere le sembianze come di una sorta di realtà solo apparentemente oggettiva tanto da imporre all’umanità ritmi superluminali e inafferrabili.
Bisogna, per giungere ad un punto di approdo, compiere un estremo sforzo intellettuale e tentare di annullare, per quanto possibile, la mistificazione del “Panta Rei”, ossia che tutto passa e scorre anche oltre la nostra capacità di cognizione. Il pensiero per essere riflessione ha necessità di una sosta, di rapire porzioni di attimi consecutivi per renderli imperituri di fronte all’incessante divenire: se l’uomo non ha fortezza di sapersi dominare e non ha volontà di sapersi fermare al momento opportuno, vuol dire che non pensa e, se non pensa, agisce come un automa freddo, spietato, irresponsabile. Il “negotium” indiscriminato e folleggiante come totale rimpiazzamento delle virtù dello “otium” riflessivo conduce, inevitabilmente, alla paradossale mancanza di tempo, in un tempo che scandisce l’evoluzione del tutto (omnia humanitatis rerum) in base al tempo stesso.
Ancor più, l’uomo in perenne e forsennato movimento non riflette su se stesso, su ciò che esperisce, sul come e perché opera in un senso piuttosto che nel suo opposto; non riflette sull’altro, suo simile, e sugli accadimenti che li vedono entrambi coinvolti o travolti.
Non ho pretesa di pervenire a conclusioni definitive; è, però, legittimo porsi una domanda che lascerò aperta: se, cioè, ad un vuoto intellettuale e riflessivo può seguire o segue anche un vuoto emotivo e etico.
Proseguendo: si è detto che il non pensare costituisce la morte della coscienza, ma non basta il solo pensare per mantenerla in vita; occorre addivenire alla manifestazione esteriore dei processi di formazione delle logiche intellettive e l’unico strumento, di cui disponiamo, va ricercato nella parola appunto intesa come espressione del pensiero e come sua forma di comunicazione sociale, culturale, politica.
Nel mondo greco antico, tra le molteplici massime attribuite al leggendario legislatore spartano Licurgo, spicca senz’altro quella nella quale viene sostenuto il principio che “la politica senza le parole non è politica”: come a dire che l’arma fondamentale della prima risiede nelle seconde.
Tanto è vero quanto espresso che, nelle immagini degli sbarchi di clandestini sulle nostre coste meridionali, codesti ultimi in tutti i sensi li vediamo emaciati, sudici, affamati, infreddoliti, nudi della loro dignità di esseri umani e, però, simbolicamente vestiti da un essenziale “vocabolarietto” di lingua italiana.
Anche sull’uso della parola o delle parole, affinché siano genuine e non vulneranti, non si può non bussare alla porta della “Casa dell’Etica” perché ad essa, e solo ad essa, spetta il compito di suscitarle e di guidarle. Un esempio fra tanti: sono oggi di gran moda, nei salotti della destra individualista e anche in quelli della sinistra “radical-chic”, termini pericolosi e fuorvianti quali successo, arrivismo, affermazione esasperata della personalità, ambizione, carriera; cioè a dire parole finalizzate all’esaltazione del proprio egocentrismo, se non del proprio egoismo, in una prospettiva di concettualizzazione anticristiana in quanto tendenti a posizionare unicentricamente l’Io al posto di Dio.
Per quello che mi circonda e per quello che mi è dato di osservare, anche nel ristretto della mia esperienza di comune cittadino, con una punta di velata malinconia mi vengono da cadenzare i suoni verbali dell’amarezza e dell’apprensione.