“Costruiamo un nuovo consenso intorno a gente perbene e capace, a destra e a manca, e tentiamo di affrontare e risolvere i problemi del territorio e del Paese con la decisione e la risolutezza che richiedono i tempi rivoluzionari. C’è speranza soltanto se c’è lotta. Ciascuno ha il suo campo di battaglia quotidiano, in cui si è trovato o che ha scelto. Lì possiamo trovarci tutti, al di là della provenienza”. (Da un articolo di Dante Freddi su OrvietoSi del 7 maggio 2012)
Annotava Nicolás Gómez Dávila “in margine a un testo implicito”: «I difensori dell’esistente lottano per qualcosa di concreto: un privilegio, una struttura sociale, un bene reale; chi lotta per un programma astratto, invece, può credere di difendere l’universale. L’uomo di sinistra si crede generoso perché le sue mete sono confuse.»
Mi sembra innegabile che in questi mesi, oltre a soffrire dei nostri malesseri individuali (dei quali ci limitiamo a lamentarci con gl’intimi) soffriamo di una sindrome che manifestiamo pubblicamente perché la sappiamo diffusa e condivisa. È la paura di un futuro di sempre maggiori sacrifici, suscettibili di degenerare in vere sofferenze e addirittura in disperazione. Le cause sono evidentemente la grave crisi economica e la evidente inadeguatezza delle classi dirigenti a darci parole e opere utili per la rinascita della speranza. E il disagio degli Orvietani è doppio perché la crisi nazionale rende ancora più drammatica la crisi che essi si erano procurati da sé.
È in questo clima che nasce la reazione contro la politica politicante e che si va in cerca di soluzioni nuove. Soprattutto i giovani sono in agitazione e ovviamente sono i più battaglieri, anche perché, come facevano magistralmente gli antichi Romani con le loro legioni, i seniores stanno alle spalle degli juniores e li sospingono, li stimolano e li consigliano, riservandosi di entrare nella mischia nel momento in cui gli juniores non dovessero reggere all’urto. Lo sta facendo alla grande il comico sessantaquattrenne che eccita i giovani e li manda avanti compattati in liste combattive.
La reazione sul piano nazionale è lenta perché i partiti sono pieni di soldi e di gente che non se la sente di tornare nell’anonimato, mentre cominciano i bagliori delle armi da fuoco, coi quali le frange sanguinarie della borghesia si sfogano, col solito risultato d’incoraggiare il compattamento della casta politico-giornalistico-sindacale.
Invece la reazione a livello locale sembra più dinamica e non si fa che parlare di liste. È sempre successo nella democrazia locale che le minacce di liste, civiche o di protesta che fossero, allarmasse i partiti e li inducesse a serrare le file, a circuire gl’irrequieti e a comprare i ribelli.
Di questi tempi sta succedendo qualcosa di nuovo: i partiti se ne fregano delle minacce. In Orvieto persino il PD, che è l’unico strutturato, è impegnato nei bisticci. Ha una sede e degli organi eletti; ma la sede serve per bestemmiare, fumare e litigare, non per approntare astute strategie. Quanto al PdL, mi astengo dai commenti per pudore, poiché ne ho fatto parte fino a qualche mese fa. Altri partiti non li nomino perché me li ricordo a malapena.
Ma non credo che i politici abbiano imparato a pensare come le persone normali, altrimenti dominerebbe il campo la ritrosia ad impelagarsi nel mare di problemi che dà una città praticamente fallita. Credo invece che vi sia in giro un gran desiderio di far vedere come si fa, ma si evita di mettersi etichette di partito perché il momento psicologico non è adatto. E chi ancora milita nei partiti, cogliendo lo stesso momento psicologico, cerca di stare zitto che passi la nottata e i progettistici di liste civiche e di protesta si facciano più ragionevoli.
Non voglio prevedere il futuro per paura di azzeccarci, ma penso che la sinistra passerà vari mesi nei bisticci tra chi vuole candidare sindaco l’ex senatore e chi invece il futuro ex deputato.
In ogni modo se temo, a livello nazionale, quelle che Gómez Dávila chiama le mete confuse della sinistra, temo molto di più la tradizionale concretezza della sinistra orvietana. Ab ira rusticorum libera nos Domine. Liberaci, o Signore, dall’ira dei villici.
Forse la paura mi fa sragionare, perciò mi perdonino i progettisti di liste civiche o di protesta. Non sono dotato della loro lucidità.
Pier Luigi Leoni
Il Direttore, citando se stesso, questa volta ci mette di fronte al problema dei problemi, alla domanda-sfida che Sandro Paternostro avrebbe detto “delle cento pistole”: come costruire una nuova classe dirigente che abbia “la decisione e la risolutezza che richiedono i tempi rivoluzionari”. Dopo le cose ragionate e pungenti, e perciò anche molto stimolanti, dette da Pier Luigi, vedrò anch’io di essere all’altezza della questione.
Non c’è dubbio che se quelli che viviamo non possono definirsi tempi rivoluzionari in senso stretto, lo sono però di sicuro in senso lato, se non altro perché, a parte il fiorire di estremismi di diverso tipo e di differente consistenza, assistiamo alla rapida scomparsa di forme e soggetti della politica che sembravano inamovibili e al crollo di modi di pensare e di agire che sembravano dover durare in eterno. Si può perciò dire che siamo in un’epoca di crisi rifondativa, che richiede di per ciò stesso ripensamenti non occasionali. Chiedo scusa, ma, seppure solo di striscio, mi viene da dire che è per questo motivo che debbo insistere fino alla noia sulla necessità, per chi vuole governare un qualsiasi processo, e in particolare per chi governa nazioni o città, di ragionare con visione prospettica e non di accontentarsi di semplicistiche e frammentarie operazioni, che quasi sempre si rivelano miopi e fallimentari.
Ho detto crisi rifondativa, con ciò intendendo dire che, come in tutte le crisi, c’è baconianamente (Francesco Bacone) la pars destruens e la pars construens, la distruzione di qualcosa e la costruzione di qualcos’altro. Mi pare di poter dire che è in crisi irreversibile ciò che, con terminologia puramente giornalistica (giornalismo d’effetto) è stata chiamata Seconda Repubblica, ma la direzione di marcia non è certo la restaurazione della Prima Repubblica, bensì al momento qualcosa di indeterminato, che in parte spazzerà via il passato e in parte lo impasterà con le inevitabili novità determinate dalle spinte e dalle controspinte di processi complessi, che vengono sia dall’interno del Paese, sia dai diversi ambienti e organismi internazionali.
In uno scenario come questo, nelle città e nelle regioni potranno dirsi classe dirigente coloro che, molto più che nel passato, anche quello recente, da un lato guardano in faccia la realtà per ciò che essa effettivamente è (che vuol dire problemi e bisogni, ma anche risorse e opportunità), e dall’altro lato possiedono e usano lo sguardo lungo, con ciò rompendo schemi consolidati quando si rivelino gabbie che imbrigliano scelte e iniziative.
Io credo che noi siamo proprio in una situazione simile. In questi anni, e segnatamente negli ultimi mesi, sia io che Pier Luigi, Dante Freddi, direi tutti gli amici del COVIP, e diversi altri che hanno avuto il coraggio di esprimere posizioni costruttive, abbiamo fatto emergere i problemi e abbiamo indicato quasi sempre possibili soluzioni e comunque metodi lineari e trasparenti per arrivarci. E’ vero, con scarso successo, ma almeno non si potrà dire che nessuno ha parlato, che metodi e comportamenti e scelte diverse non c’erano, qualora si ritenesse che quelle adottate siano, tutte o in parte, sbagliate o inadeguate o inesistenti.
Con ciò sto dicendo che, se è vero che sono pie illusioni le invocazioni di fare tabula rasa, non sono per nulla operazioni gattopardesche quelle di chi seriamente riflette sui problemi e cerca sensate, razionali, coraggiose soluzioni, seppure non sia vergine all’impegno politico e/o istituzionale. Anzi, dico senza timori che tutti coloro che ragionano in positivo, senza pregiudizi e catene mentali, e che sentono il dovere civico di impegnarsi nella comunità, sono da considerare i costruttori del nuovo di cui abbiamo bisogno. L’eccesso di semplificazione è quasi sempre una scusa per non far niente. Il cambiamento vero si fa con chi lo vuol fare e ne è effettivamente capace.
In quest’ottica, la misura sono la capacità di affrontare i problemi e le iniziative che si intraprendono. Faccio qualche esempio. Il primo: la riforma regionale del sistema sanitario. Tra qualche giorno (è annunciato per mercoledì 16) la Giunta regionale presenterà in Consiglio il progetto di riforma della sanità. Le scelte magari non saranno esattamente quelle auspicabili nell’ottica di un riformismo coraggioso, ma è certo che avranno un impatto notevole, determineranno cambiamenti forti sia nell’organizzazione dei servizi che nella filosofia generale e nei comportamenti degli operatori e degli utenti. Quale ruolo assumerà il Distretto sanitario, e quale ruolo l’ospedale? C’è una relazione tra questi ruoli e quello più generale, politico-programmatico, nella prospettiva di un superamento delle barriere amministrative nell’erogazione dei servizi pubblici, particolarmente importante nelle zone di regioni confinanti? Domando: qualcuno qui da noi se ne preoccupa?
Il secondo: la riorganizzazione del sistema scolastico. Tra qualche mese, prima in sede provinciale e poi in sede regionale, sarà decisa la nuova organizzazione del sistema scolastico. Ad Orvieto di tre scuole del primo ciclo (infanzia, primaria, secondaria di primo grado) se ne dovranno fare due, e di tre scuole del secondo ciclo (secondaria di secondo grado) se ne dovranno fare parimenti due. E’ evidente che non si tratta solo di chi sta con chi, ma di quale sistema complessivo di istruzione e formazione vogliamo, di quale rapporto si può e si vuole stabilire con le ipotesi di sviluppo del territorio, di quale sia la migliore ipotesi di collocazione in strutture adeguate e razionalizzate dei diversi indirizzi di studio, di quale sia un uso intelligente delle risorse. Domando: qualcuno se ne preoccupa? Forse sì, ma in che modo? E non è forse il caso di togliere dall’oscurità il darsi da fare e soprattutto di non lasciare nelle mani dei poteri esterni le decisioni reali?
Da ultimo: la riorganizzazione delle Province. Il Governo renderà pubbliche tra poco le linee di riforma per la riduzione del loro numero (si dice almeno dal 30 al 50%). Non si sa ancora quale sarà la soglia minima sotto la quale non potrà esistere questa istituzione (si dice tra 350.000 e 450.000 abitanti). E’ chiaro però che per ciò che concerne l’Umbria in ogni caso la provincia di Terni così com’è non può più esistere. Allora, poiché sarebbe assurdo avere una sola provincia (perché il governo dell’una configgerebbe con quello dell’altra), le cose sono due: o si amplia il territorio della provincia di Terni fino a raggiungere la dimensione stabilita dalla legge, o si aboliscono entrambe le province e si conferisce un ruolo di coordinamento dei servizi e delle politiche di territorio alle unioni dei comuni. Non ci vuole da essere geni per comprendere che nel primo caso l’ampliamento andrebbe in direzione di Valnerina, Spoleto e Foligno, con conseguente ulteriore spostamento del baricentro decisionale, dell’uso delle risorse e dell’organizzazione dei servizi. La nostra zona sarebbe non semplicemente penalizzata, ma fortemente emarginata. Non a caso già in questa fase, evidentemente in vista di quanto potrà accadere, è stata avanzata da alcune parti politico-istituzionali la proposta di fare due ASL territoriali coincidenti con le aree delle ipotetiche province ridisegnate e di collocare la direzione della ASL del ternano a Foligno. Guarda caso. Ed è emblematico che sia subito cominciata (vedere i giornali di questi giorni) la diatriba tra Terni e Foligno, non su come deve funzionare il sistema, ma sulla localizzazione della struttura amministrativa. Lasciamo correre, ma comunque appunto Orvieto fuori. Domando: qualcuno se ne preoccupa?
Soprattutto quest’ultimo esempio dovrebbe convincere tutti che siamo entrati in una fase nella quale le discussioni debbono cambiare radicalmente segno. Siamo in una vera emergenza nazionale e siamo in una preoccupantissima situazione locale. Poiché la realtà non è affatto ferma, noi rischiamo di brutto di andare solo giù, senza speranza di essere qualcosa di significativo nel panorama che si sta ridisegnando.
Se noi in questo panorama di cambiamento ci vogliamo stare con un ruolo non subordinato, dobbiamo uscire da schemi consunti, diatribe da pollaio e individualismi carrieristici che, guardati con un certo distacco, recitano sinceramente una buona dose di irresponsabilità. Liste civiche? Non lo so. So che dobbiamo fin d’ora unire le forze che non vogliono la nostra emarginazione e il nostro deperimento verso una realtà ricca solo di ambizioni non soddisfatte e costretta a razzolare qualcosa di qua e di là. Sarà possibile? Chi se ne dichiarerà interessato? Chi si impegnerà sul serio? Concludo con una famosa citazione tratta dal romanzo fantascientifico Metro 33, scritto dal russo Dmitry Glukhovsky: “Colui che è abbastanza paziente e valoroso da scrutare l’oscurità per tutta la vita, sarà il primo a scorgere in essa la luce”. Non sarà stato magari per tutta la vita, ma credo che non siano pochi quelli che, essendo adusi a scrutare l’oscurità, possano ad un certo punto scorgere in essa la luce.
Franco Raimondo Barbabella