Quando apprendo della convocazione di un Consiglio comunale, dico a me stesso: dei miei “peccatucci di coscienza” ne porto il peso e, per penitenza, parteciperò da spettatore ai lavori del Consiglio convocato.
“C” e “C” come Consiglio comunale. La penitenza suddetta consiste nel fatto che il campionario di esibizioni offerto dal dibattito consiliare è produttivo di sofferenze, inquietudini e contrizioni per la spesso sterile inconcludenza del suo dispiegarsi. Ricordo come nella mia giovinezza assistetti, disincantato, ad una novella televisiva in otto puntate dal titolo “La fiera delle vanità”. Ordunque, nel consesso istituzionale della città di Orvieto, mi pare proprio di ripercorrere molte delle tappe nelle quali si articolò la novella di cui sopra. E la vanità si manifesta in atti e atteggiamenti di arroganza, di impertinenza, di supponenza, di protagonismo e di presenzialismo a tutti i costi fino al punto di chiedere la parola anche quando non si ha nulla di proficuo da proporre. Si perde così del tempo prezioso, gettandolo alle ortiche, e la città langue e ristagna: “Dum Romae consulitur, Sagunthum expugnatur”. Vi sono, fortunatamente e per grazia celeste, le debite eccezioni che vanno individuate in personalità di elevata statura morale e politica delle quali, però, non è conveniente citare i nomi e cognomi, essendone i diretti interessati consapevoli e i cittadini tutti a perfetta di loro conoscenza.
Quadro a tinte fosche, direte!?!. Certamente sì; ma se alzo lo sguardo nella notte limpida vedo il comparire di nuove STELLE, di più delle CINQUE ora di gran moda.