L’angosciosa incertezza del nostro avvenire, e cittadino e nazionale e mondiale, soffoca in gola, forse irrimediabilmente, ogni nota gioiosa per concedere un unico spazio a delle esternazioni tristi, irrituali se non del tutto stravaganti.
Sembra che non ci sia più posto per le azioni di coerenza, per i comportamenti di responsabilità e per gli atti di coraggio, ma ogni dimensione appare assorbita dal termine “manovre” che è, già di per sé, un vocabolo incutente timore perché ambiguo e il più delle volte apportatore di sacrifici.
Ecco così che anche la manovra economico-finanziaria di riequilibrio dei conti pubblici, approntata dal Governo centrale, non si sottrae alla connotazione di necessarietà imposta dalla negativa congiuntura internazionale e, però, è nei fatti mal digerita dalle sempre più scarne ed esangui tasche dei tartassati consueti contribuenti.
Al di là di ogni giudizio di merito, ritengo di poter asserire con ragionevole certezza che l’attuale politica economica governativa si impregna del sapore acido di contrarietà alla moralità pubblica in quanto fortemente caratterizzata da soverchianti elementi di metodologia classista.
Mi spiego meglio intendendomi riferire ad una classe castica, sempre esistita e da sempre abilmente operativa, ma che negli ultimi due decenni ha mostrato con maggiore virulenza i suoi artigli e le sue zanne fameliche. Si tratta della classe dei magnati dell’alta finanza e dei potentati economici facenti capo alla grande industria e al sistema bancario nel suo complesso che, pur di non vedere compromessi e intaccati i loro baluardi di forza e di potere, non si creano scrupoli di sorta nel dettare ed imporre scelte esecutive di pregiudizio e nocumento per gli strati medio-bassi della società italiana. A tale casta va aggiunta quella dei politici spregiudicati, licenziosi e corrotti.
Eppure uno dei postulati fondamentali, e universalmente riconosciuto come tale, di quella branca delle scienze economiche che prende il nome di Economia Politica suggerisce, obbligatoriamente, di fare perno e leva sugli investimenti per opere pubbliche proprio nel pieno dei cicli depressivi e per mettersi alle spalle le crisi finanziarie e le bufere monetarie temporalmente più ad onda lunga e strutturalmente più resistenti.
Colpire, con rasoiate a lama affilata di scimitarra, Regioni e Comuni, privandoli di ogni possibilità di intervenire nei processi di rilancio dello sviluppo locale e territoriale, ha la stessa valenza di chi ragiona con la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. Gli Enti Pubblici non sono così più in grado di commissionare opere socialmente utili poiché non hanno denaro da spendere; le imprese private si vedono decurtato gran parte del loro potenziale produttivo e sono costrette a licenziare; le famiglie, orbate del reddito da lavoro, debbono necessariamente rivedere i loro piani di spesa con conseguente drastica contrazione dei consumi individuali: il circuito virtuoso di produzione e scambio si collassa e l’inevitabile sbocco è la funesta entrata in un vicolo buio e cieco.
Mario Monti, catapultato dalla cattedra universitaria a quella di Capo del Governo, fin da subito si è trincerato per la salvaguardia del patto di stabilità tra prodotto interno lordo e spesa pubblica, produttiva e non, in quella che può essere riassunta come la trilogia delle “tre erre”: rigore, risparmio, riduzioni. A ben considerare, ritorna in mente d’impatto immediato la parola chiave che dominò lo scenario nazionale nel periodo della prima crisi petrolifera e che risuona ancora come un incubo: erano i tempi dell’Austerità.
L’austerità di oggi, però, si connota non tanto per scelte impopolari, quanto piuttosto per vere e proprie scelte cinicamente e crudelmente antipopolari. Antipopolari perché il “modus operandi” di Monti e dei suoi Ministri è conservatore in economia, reazionario sui temi del lavoro e dell’occupazione, prigioniero di “poteri forti” in materia finanziaria e monetaria: nella sostanza non è né fautore di politiche visibilmente popolari, cioè a beneficio di tutti, e né lungimirante e fruttuoso.
Il PD, partito che dovrebbe rappresentare le più genuine istanze delle “plebi rurali, urbane ed operaie”, come si atteggia in tali circostanze?.
Incredibilmente e stoltamente, si illude di poter continuare ad esistere politicamente mentre, invece, solo vivacchia impantanato nelle sue innumerevoli contraddizioni: inneggia al candidato socialista alla Presidenza francese quale cuneo di rottura dell’asse franco-tedesco dominante la scena europea e, in Italia, prosegue testardamente nel sostegno al Governo in carica che di quella alleanza è parte integrante; è prodigo di meri annunci sulle riforme del fisco, del finanziamento pubblico ai partiti, della legge elettorale, del riordino di Camera e Senato, della tassazione sui “grandi patrimoni”e, non da ultimo, del contrasto alla corruzione dilagante ma, ad oggi, non è riuscito a produrre nulla di concreto, di tangibile, di realmente rispondente alla esigenza di novità.
Una novità intesa non come un pacchetto di progetti strumentali, bensì come categoria intellettiva del pensiero concettuale e dunque, come tale, rivoluzionaria per princìpi ispiratori e fini da perseguire.
La strada è una e una soltanto: il Partito Democratico, se vuole davvero risalire la china in termini di rappresentanza e di rappresentatività, deve necessariamente divenire più democratico e meno oligarchico e verticistico, idealmente riformista e concretamente riformatore; in una, un partito autenticamente popolare che abbia le sue radici nel popolo, sia pugnace a fianco e insieme al popolo, abbia di mira le esigenze e i bisogni del popolo e, infine, sia produttivo per il popolo.
Ho sempre prediletto, concludendo, l’amenità e la frescura dei boschi di montagna rispetto alla arida siccità degli arenili di mare; la frequentazione della politica contemporanea mi porta, oggi però, a poter dichiarare di invece preferire i “Mari” ai “Monti” e non perché anch’io mi chiami Mario.