L’assessore ai servizi sociali Roberta Tardani precisa la cosiddetta “rimodulazione” dei servizi a chiamata contro il cui taglio si è scagliata la Cgil.
“Per non alimentare confusione negli utenti del servizio di trasporto per anziani non autosufficienti e disabili – afferma Tardani – è opportuno chiarire che la sospensione del servizio per i cittadini del Comune di Orvieto riguarda esclusivamente il “servizio a chiamata”, su prenotazione dell’utente, che viene utilizzato per accedere ai servizi socio – sanitari del territorio (distretto, ambulatori, centri salute, ospedale) e per le necessità della vita quotidiana (accompagnamento per la spesa, visite al cimitero, riscossioni di pensione).
La sospensione del servizio, invece, non riguarda: “il trasporto delle persone disabili presso i centri socio-riabilitativi di Ciconia e Ficulle, il trasporto degli emodializzati perché si tratta di un servizio della Asl di Terni, il trasporto degli oncologici in quanto il servizio per Terni viene effettuato dall’associazione Orvieto contro il cancro”.
La rimodulazione, in via sperimentale, parte già da questo mese di aprile. Il sindacato di Rita Paggio ha messo in guardia dal toccare il welfare in assenza di un confronto sindacale. Un incontro con i sindacati sul preventivo 2012, in fase di redazione in queste settimane, non è stato ancora convocato, almeno fino a questo momento.
(Da Orvietosì 23 aprile 2012)
Chiamiamola pure rimodulazione, ma la soppressione di certi servizi pubblici arreca carichi ulteriori di sofferenze a concittadini già sofferenti. Doverlo decidere è l’esperienza più penosa per gli amministratori comunali e forse viene loro la tentazione (a me viene) di mollare la carica e lasciare ad altri la triste incombenza. Ma poi si cerca di resistere, perché la viltà è ripugnante, a cominciare dalla propria.
Ciò detto, sorge spontanea la domanda: è possibile che non vi siano alternative? È possibile che una società che riteniamo evoluta debba penosamente regredire alla situazione di oltre mezzo secolo fa?
Il fatto che l’Italia sia pesantemente indebitata e che, per cause interne e internazionali, sia passata dalla stagnazione economica alla recessione, non può non avere influenza sugli enti locali e specialmente su quelli, come il nostro, che sono stati più sciagurati dello Stato nel caricarsi di debiti. Orbene, per quanto riguarda lo Stato, poiché le tasse hanno superato il limite della decenza, non si potrà che procedere tagliando drasticamente la spesa pubblica, riducendo la pressione fiscale e alienando il patrimonio.
Per quanto riguarda la spesa pubblica, non si potrà ridurre la spesa per il welfare, che, scandalosamente, è inferiore al cinquanta per cento, ma si dovranno ridurre gli enti pubblici, a cominciare dalle province, e si dovrà tagliare il personale.
Per quanto riguarda la pressione fiscale, è di tutta evidenza che essa, comprimendo i consumi, fa chiudere fabbriche e negozi e toglie ossigeno agli investimenti.
Per quanto riguarda l’alienazione del patrimonio, basta considerare che, quando esso non dà reddito, è ricchezza inutile, e deve essere quindi alienato per ridurre il debito, che è povertà perniciosa.
Se si considerano i tre elementi (spesa pubblica, pressione fiscale e patrimonio) al nostro livello comunale si possono fare analoghe e ulteriori considerazioni.
La spesa del nostro comune per il welfare, che consiste in assistenza sociale e scolastica, è quantitativamente tanto bassa che può essere suscettibile di razionalizzazione, ma non di riduzione. Per esempio, a mio parere, dovrebbero essere ripristinati i cosiddetti “servizi a chiamata” finanziandoli con la soppressione dei buoni pasto, limitando i servizi di mensa scolastica a coloro che possono pagarli integralmente e a coloro che, invece, devono essere nutriti gratis perché le famiglie sono effettivamente bisognose. E lo stato di bisogno dovrebbe essere valutato non coi trucchetti, tipo la famigerata certificazione ISEE, ma da commissioni di genitori degli alunni. So di non rendermi simpatico, ma farei pagare fino all’ultimo centesimo il costo del pasto al figlio di uno che va a caccia, oppure si permette, oltre all’automobile, la motocicletta. Altrettanto dicasi per i trasporti scolastici. Altre spese è quasi impossibile ridurle, poiché esse occorrono per il personale (a cui non si può né togliere né abbassare lo stipendio), per restituire i debiti (avete mai provato a non pagare una rata di mutuo?) e per le manutenzioni (che sono già insufficienti).
La pressione fiscale comunale è da vari anni pesante nel nostro comune. Quest’anno è aumentata la pressione fiscale statale e il comune dovrà metterci sopra un carico da undici per pareggiare il proprio bilancio. Speriamo che non si sia costretti a spingere le aliquote al massimo. Dal mio punto di vista, poiché la pressione fiscale derivante dalla discrezionalità comunale è principalmente quella sulla casa, dovrebbero essere penalizzate (non certo espropriate, ma soggette a una tassazione superiore) le case che non vengono utilizzate né direttamente né dandole in locazione o in uso gratuito. Nel contempo dovrebbero essere attivate iniziative per incentivare, con fondi di garanzia a beneficio di chi acquista e di chi va in affitto, l’utilizzazione delle case e di altri immobili.
L’alienazione del patrimonio (una volta individuati gli immobili che danno reddito, o che possono essere messi a reddito in tempi non biblici, dandosi da fare di più e chiacchierando di meno) è semplicemente inevitabile: o lo fa l’amministrazione comunale o lo fa qualcun altro al posto suo. Per messa a reddito intendo anche gli usi che comportino benefici indiretti al comune-ente e benefici diretti al comune-comunità.
Spero nella ribattuta di Franco per considerazioni generali sul tema del welfare, che ormai è entrato in crisi perfino in quei Paesi scandinavi che ci affascinarono in gioventù e ci fecero arrabbiare nei confronti della nostra amata, ma sconclusionata Italia. Invidiavamo la socialdemocrazia nordica, ma pochi se ne fecero seguaci. Molti di noi la consideravano inquinata dall’alcolismo e dai suicidi. Altri furono attratti dal massimalismo socialcomunista, quello sì foriero di giustizia sociale e di felicità, altro che socialdemocrazia!
Poi il tempo ha spento le speranze e i furori si sono mutati in piccole arrabbiature. Riduciamo i servizi assistenziali, come sta facendo anche la Svezia. E stiamo qui malinconicamente a disquisire come metterci almeno una pezza. Né ci consola discuterne coi sindacati, che sono sempre in mezzo come il prezzemolo.
Pier Luigi Leoni
Pier Luigi dice cose così sagge che per me è difficile aggiungere considerazioni parimenti significative. Tuttavia mi tocca stare al gioco e dunque anch’io parlerò. Peraltro il tema scelto questa settimana è di quelli ai quali nessuno può sfuggire e su cui chi ha ruoli pubblici ha addirittura il dovere di prendere posizione anche quando non sia investito di responsabilità amministrative, come nel mio caso.
Concordo innanzitutto con Pier Luigi sul fatto che non solo è doloroso, ma è anche profondamente ingiusto comprimere una spesa sociale già insufficiente. Ed inoltre è sbagliato economicamente, perché di fatto rende esplicita l’incapacità delle classi dirigenti di elaborare e attuare strategie di sviluppo che creino reddito sufficiente ad aiutare i bisognosi di assistenza, ciò che a sua volta genera sfiducia e depressione. Lo dico fuori dai denti: considero delittuoso lasciare che la società si avviti su se stessa in una perversa spirale di non speranza.
Queste considerazioni portano subito al cuore del problema: la crisi del welfare per come lo abbiamo conosciuto nella sua fase di massima espansione (l’epoca posteriore alla seconda guerra mondiale) e la necessità di una sua profonda revisione per evitare la sua liquidazione. Com’è noto, il welfare è un insieme di pratiche di protezione sociale in capo al potere pubblico, che ha avuto origine in Europa nella seconda metà del XIX° secolo in risposta ai problemi generati dall’industrializzazione e dall’urbanesimo, ai quali non erano in grado di far fronte le pratiche tradizionali di aiuto reciproco e di sostegno privato (famiglia, comunità, chiesa, ecc.).
D’accordo, le condizioni che lo avevano generato sono del tutto cambiate, ma questo non significa per nulla che sia giustificato e vantaggioso tornare all’epoca in cui le protezioni sociali erano affidate alla bontà o al caso. Infatti, se c’è una cosa chiara, questa è che abbandonare le persone a se stesse non solo è moralmente repellente, ma genera fenomeni sociali incontrollabili, che non convengono nemmeno a chi volesse predicare o addirittura praticare una qualche forma di darwinismo sociale. Detto ciò, su tale argomento credo di aver detto abbastanza. Con un’aggiunta però: chi non si rende conto dei danni che fa quando prende decisioni che incidono sui diritti fondamentali della persona, per il solo fatto di essere inconsapevole non può essere ritenuto incolpevole.
A questo punto ritengo vada introdotta una considerazione più generale, che è la seguente: sembra ormai che la preoccupazione per la disastrosa situazione finanziaria pubblica giustifichi tutto. C’è di più: basta dire che bisogna risanare il debito e ogni decisione sembra diventare coraggiosa e apparire quasi in luce di santità. Sembra che sia così, ma non è così. Non certo nel senso che sia stato bene vivere al di sopra delle proprie possibilità e che non sia necessario riportare la spesa sotto controllo, ma nel senso che le politiche di solo rigore sono chiaramente fallimentari. Dappertutto: in Europa, come in Italia e a livello locale, ad esempio ad Orvieto. E’ noto che non stanno funzionando né in Irlanda né in Gran Bretagna, ed è evidente che i guai per l’Italia (non di meno nella nostra realtà) sono gravi e sono destinati a diventare rapidamente insostenibili. Tant’è che ormai è diventata corale l’invocazione di politiche della crescita, che evidentemente comportano precise e coraggiose decisioni di intervento pubblico, per rendere razionale e produttiva la spesa e nel contempo diminuire la pressione fiscale e ridare fiato ai consumi e agli investimenti.
E’ quanto da tempo sostengono i più coraggiosi e lucidi economisti neo-keynesiani, a partire naturalmente dal premio Nobel Paul Krugman, che da tempo sostiene che se l’Europa non cambia strada porterà nell’abisso se stessa e il mondo. In fondo in questo caso la teoria economica coincide semplicemente con il buon senso: se si fanno politiche recessive con tagli su tagli e contemporaneamente non si impostano serie e strutturate politiche di sviluppo, inevitabilmente si induce depressione.
Non è forse vero che questo sta accadendo in Italia, e che forse è già troppo tardi per rimediare ai danni di una politica che si è preoccupata solo di rassicurare i mercati? Ma come si fa a dire che si sta lavorando per lo sviluppo nello stesso momento nel quale con la tassazione si strozzano sia le piccole imprese che le famiglie e le singole persone!
E, a proposito di risanamento e sviluppo, veniamo più direttamente a noi. Solo su due aspetti, perché è sufficiente a capirci per l’essenziale: l’IMU e il patrimonio. Sul primo dico con inequivocabile chiarezza che usare questa imposta per far quadrare il bilancio, e dunque portarla ai livelli massimi consentiti, da una parte è semplicemente un attentato alla sicurezza sociale, e dall’altra è la controprova di una incapacità a vedere al di là del proprio naso. In Italia ci sono ormai esempi di atteggiamenti del tutto diversi, coraggiosi, razionali, responsabili. Si studino e si cerchi di ragionare senza stringere i cittadini nella morsa tra la ribellione e la depressione. Speriamo di non doverci accontentare solo di una vigile rassegnazione.
Sul secondo, stabilito che anche per me è assodato che il patrimonio improduttivo può essere venduto, faccio solo notare che è tempo, tanto tempo, che si sta vendendo fior di patrimonio, e non mi pare che vi siano risultati apprezzabili né in termini di ricavi né in termini di benefici sostanziali di bilancio. Non è forse vero che le alienazioni più importanti, peraltro poche, sono avvenute a prezzo di aste fatte ad un ribasso tale che parlare di svendita è semplicemente pleonastico? Il Presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini, venerdi sera nella trasmissione “Otto e Mezzo”, ha detto a chiare lettere che vendere il patrimonio nelle condizioni attuali significa semplicemente svenderlo, e contribuire così all’impoverimento del Paese. Nel nostro caso, all’impoverimento di Orvieto. Anche perché nessuno garantisce dell’uso produttivo del patrimonio da parte di chi l’ha così facilmente ottenuto.
Chi ci legge sa che è una tesi che io sostengo da quando ha preso piede anche qui da noi questa mania di vendere, che – va detto ormai senza timore di essere smentiti – maschera solo, peraltro in modo piuttosto maldestro, l’incapacità a darsi una strategia d’uso che sia funzionale alle potenzialità e ai bisogni della città e del territorio. Lo so che la ragione e l’interesse pubblico sono ormai l’ultimo elemento che guida le scelte politiche (e non si dica poi che la cosiddetta antipolitica ha un’origine misteriosa), ma lo voglio ripetere lo stesso in modo ultrachiaro: nelle faccende di governo, nelle cose da cui dipende il futuro di una comunità, le scorciatoie non esistono; esistono solo le visioni lucide, le strategie e il lavoro serio per attuarle. Il pensiero è fatica, ma senza pensiero c’è solo buio. E non ci si illuda: senza strategie e progetti di sviluppo non ci sarà nemmeno risanamento di bilancio. Ci saranno però di sicuro cittadini più poveri, sia rispetto al patrimonio personale che a quello pubblico.
Si sono perse tante di quelle occasioni che viene il magone al solo pensiero, di quelle passate come di quelle recenti. L’ultima è l’incredibile vicenda della mozione per discutere in Consiglio comunale, sul serio e senza pregiudizi, dell’uso del patrimonio pubblico. Mi chiedo: ma dove può andare una città che, attraverso il suo massimo consesso, non riesce nemmeno a digerire che c’è stata una sentenza inequivocabile della Corte dei Conti che conferisce piena e assoluta legittimità all’operato di RPO per la rifunzionalizzazione dell’ex Piave e che di per ciò stesso rende doveroso utilizzare in modo rapido e produttivo il materiale progettuale da essa prodotto? A suo tempo si è impedito che quel progetto fosse messo alla prova della sua transitabilità e giungesse in porto. Oggi si vuole addirittura evitare di parlarne. Fino a quando continuerà questo gioco che uccide la città? Chi oserà dire: io non sapevo niente?
Franco Raimondo Barbabella
Ping Pong è la rubrica di Orvietosì curata da Franco Raimondo Barbabella e Pier Luigi Leoni. Un appuntamento del lunedì in cui i due nostri “amici” raccontano la loro su una frase apparsa sul nostro giornale durante la settimana, una palla che io lancio ad uno dei due e che loro si rimpallano. Ci auguriamo che questo gioco vi piaccia e si ripeta il successo di “A Destra e a Manca”. Naturalmente tutti i lettori sono invitati la tavolo di Ping Pong. Basta inviare una e-mail a dantefreddi@orvietosi.it
Questa è la puntata 33