di Massimo Gnagnarini
Quando appresi che tra le deleghe che il Sindaco mi aveva conferito con la mia nomina ad assessore vi era ricompresa anche quella al personale e all’organizzazione dell’Ente, con un gesto automatico, tipicamente generato da quella parte del sistema nervoso che curiosamente chiamiamo simpatico, feci per asciugarmi il collo dal rigagnolo di sudore freddo che, in effetti, mi era già comparso lungo il collo.
Un conto era il risanamento finanziario del Comune di Orvieto, questione sulla quale ero già intervenuto, studiato, pubblicato e altro paio di maniche sarebbe stato realizzare una condivisione interna capace di rispondere alle ambizioni di un luogo straordinario quale è Orvieto e a quelle altrettanto forti del Progetto del sindaco Germani.
La consapevolezza delle difficoltà che avrei incontrato , ancor prima dei buoni risultati fino ad oggi raggiunti sulla riorganizzazione della macchina comunale, mi derivano dall’esperienza personale sviluppata in quarant’anni trascorsi in banca e dall’aver ben presenti le differenze oggettive tra le due organizzazioni: una pubblica e l’altra privata.
Sapevo già che avrei incontrato oltre a una quota maggioritaria di risorse umane serie e preparate anche quella quota parte di personale minoritaria, ma fisiologica e presente in qualunque organizzazione lavorativa pubblica o privata, che si caratterizza come vittima e che costituisce il maggiore ostacolo al cambiamento e una maggiore produttività del lavoro.
Il curriculum della vittima prevede la creazione di un consorzio di vittime che unendosi tra loro sviluppano dinamiche collusive così raffinate e perverse che gli consentono di proteggersi dal cambiamento confermando reciprocamente le proprie debolezze. S’incontrano tra loro non per analizzare il mondo esterno, ma per confermarsi i propri alibi e quindi difendersi dai turbamenti.
Le vittime quando si uniscono riescono in realtà a diventare veri e propri persecutori utilizzando forme di arrogante debolezza che avvelena le relazioni. La vittima non chiede aiuto lo prescrive, lo pretende, lo impone. Naturalmente l’aiuto che chiede non è quello che gli serve, ma quello che gli consente di mantenere la sua identità vittimistica.
Il paradigma perverso è che la vittima professionista ha bisogno di non risolvere il suo problema perché se accadesse comporterebbe il rischio di non poter essere più vittima.
Le vittime professionali sono quasi invincibili: vincono se fai quello che vogliono ma vincono anche se non lo fai, così possono affermare con forza che tu sei il soggetto negativo e anche tu un nemico.
Le vittime stellari sanno che non devono riconoscere il valore di chi le aiuta e allora quando i fatti concreti possono diventare inesorabilmente rivelatori fanno in modo di svalutare il fornitore di aiuto creando una frattura che rompa il rapporto.
La vittima non può correre il rischio di essere aiutata, se gli togli il lamento, gli togli tutto.
Chi aiuta lo fa favorendo il cambiamento e il suo contributo è nel cercare di fare in modo che questa vittima arrogante sia meno vittima attraverso l’acquisizione di maggiore consapevolezza.
Provo, ma mi sono accorto che il timore dell’abisso che si apre attraverso l’acquisizione di maggiore consapevolezza è per la vittima davvero insopportabile, mina la sua stessa identità.
Le vittime sono imbattibili, le vittime non cambiano mai la strada presa, loro hanno nel cambiamento il loro principale nemico.