di Pasquale Marino
Gentile Direttore,
provo ad entrare in una discussione che si è accesa sulla testata di OrvietoSI nei giorni che hanno preceduto lo scorso Ferragosto. Mi riferisco a un vivace scambio di idee tra Claudio Bizzarri e Franco Raimondo Barbabella, a proposito del PAAO.
Non conoscendo i retroscena di tale discussione, retroscena che certamente esistono, e non per forza negativi, ho molto pensato sull’opportunità di esprimere il mio pensiero su questa questione. Il rischio, peraltro elevato, è di fare la fine di un “un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro”. Voglio però, superare la remora, sostenuto dal fatto che la polemica di cui parliamo, se così la vogliamo chiamare, è piuttosto stantia. Sia nel particolare, quanto in ambito generale italiano. Inoltre mi sembra di poter cogliere in questo piccolo momento di dibattito, accesosi inaspettatamente e improvvisamente, complice la calura agostana, un qualche valore positivo; Quello di rendere “pubblico” un dibattito altrimenti ristretto a pochi (anzi ristretto a pochissimi). Il dibattito è sulla migliore destinazione possibile da dare ad un complesso di beni di enorme valore culturale presenti sul territorio. Si tratta in massima parte Beni archeologici. (Purtroppo in Città, anche tra gli addetti ai lavori, non tutti accettano o non tutti sanno che ad esempio il Duomo prima ancora di essere un monumento d’arte è un grande monumento archeologico. Come tale andrebbe tutelato, presentato e “conservato”).
È proprio questo a mio parere, il vero nodo essenziale su cui bisogna porre l’accento: aprire un dibattito vero sui Beni Culturali di questa città e del suo circondario. Un dibattito promosso in prima istanza dagli “operatori culturali” presenti nella comunità orvietana. Allargato successivamente alla dirigenza locale, anche politica. Soprattutto è necessario creare un dibattito cosciente, consapevole, partecipativo della comunità locale tutta intera. Niente ha più valore pubblico del Bene culturale. Anche quello di proprietà privata (tale ad esempio i beni diocesani). Obiettivo primario ed essenziale è rendere consapevole la gente comune, non tanto dei Beni Culturali in se stessi, ma dell’uso e delle destinazioni che di essi si fa o si vorrebbe fare. Tanto più che nella maggior parte dei casi, lo si fa con soldi pubblici. Il che significa con le tasse pagate dai cittadini.
Dopo di che parliamo pure del perché il PAAO non decolla, ma chiediamoci cosa la gente comune conosce del PAAO. Se ne conosce l’esistenza e la funzione almeno in maniera teorica.
Se la comunità sapesse realmente di cosa si tratta, lo accetterebbe? Lo vorrebbe?
Soprattutto, la comunità vorrebbe sapere: “Chi paga?”. Cosa può portare in termini culturali ed economici? Io non dico che il PAAO non va bene! Per principio.
Personalmente da addetto, io dico semplicemente: è lo strumento adatto per quello che si vuole fare?
È vero che lo strumento del Parco Archeologico è uno dei pochi strumenti di valorizzazione indicati dal Codice dei Beni Culturali. Ma quanti veri Parchi Archeologici sono stati creati in Italia? Quanti funzionano realmente e non sono macchine mangia soldi-pubblici? Quanti starebbero in piedi senza sovvenzioni? Quanti sono serviti solo per creare incarichi dirigenziali? Quanta ricaduta in termini di turismo, questi parchi hanno operato? L’analisi dei costi/benefici a mio avviso, è negativa, totalmente. Lo strumento è inefficace, non in assoluto, ma così come è concepito dalla nostra legislazione. La realizzazione di un Parco archeologico implica il coinvolgimento di troppi organismi pubblici di differenti natura. Implica una cessione di poteri non indifferenti, sia per quanto riguarda gli organi territoriali, sia per quanto riguarda gli Organi di Tutela. Implica impegni costanti e pesanti in termini di incarichi proprio all’interno delle pubbliche amministrazioni, le quali non hanno spesso né la volontà, né la possibilità di sobbarcarsi un così pesante impegno. Per questo nessuno li vuole, se non a fronte di uno spargimento cospicuo di fondi e di incarichi retribuiti.
Aggiungiamo a questo il fatto che la classe politica in generale in Italia non ha mai concepito, forse non lo concepisce tuttora, che i Beni Culturali siano la molla per la nostra industria turistica e non uno dei vari modi per spendere soldi pubblici. Forse i nostri politici non hanno mai capito che il turismo è una delle nostre industrie, quindi come possono pensare che i Beni Culturali possano realmente trainare il turismo.
Il dibattito è necessario perché abbiamo un deficit di democrazia in generale nel nostro Paese, non solo sulla gestione dei Beni di valore culturale. In più abbiamo un mai realmente affrontato problema di conflitto di interessi. Chi fa ricerca ad esempio, non può divenire titolare della gestione dei “luoghi della cultura”. È come dire che chi riceve soldi per sperimentare un nuovo farmaco, poi lo deve anche vendere. Non funziona in questo modo, ci siamo incartati infatti! Questa la realtà.
In tutto questo sarebbe interessante conoscere il parere degli Organi di Tutela, perché no! Se esistono, esprimeranno un pensiero.
Non posso, sempre riguardo al dibattito acceso, non portare un ulteriore elemento alla discussione. Esso nasce da esperienza del tutto personale, legata alla costatazione di una sorta di “serrata tacita” operata da istituzioni culturali cittadine e da alcuni dei loro responsabili. Da molti anni infatti, sono entrato a far parte della comunità orvietana. Ho pertanto sperimentato la difficoltà per un “archeologo da campo” come me, di promuovere un vero dibattito sui Beni Culturali di questa splendida realtà. Come pure ho sperimentato la difficoltà di far capire una tale necessità di dibattito, alla stessa componente intellettuale e dirigenziale della Città. Anzi, è proprio estremamente difficile avvicinarsi al sistema di gestione di quei Beni Culturali cittadini, senza essere guardato con sospetto e diffidenza. Alle richieste non si risponde, non dico in modo negativo, semplicemente e banalmente, non si risponde. Viviamo in una realtà in cui, pochi fortunati si sono ritagliati un proprio spazio di azione. E ritengono di non dover rispondere a nessuno.
Mi viene da pensare che più che il vaso di coccio stritolato dai vasi di ferro, bisogna temere la finta e la studiata indifferenza. Sento già la “voce di uno che grida nel deserto”… Chiedo scusa il paragone è troppo presuntuoso, oltre che blasfemo!