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Una casa di pietra bianca

Redazione by Redazione
5 Dicembre 2025
in Corsivi, Archivio notizie
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di Ali Rashid

Avevamo una casa di pietra bianca nel mio villaggio: Lifta, fondato 4.000 anni fa dai Cananei e conosciuta dai Romani come Nifta. Il suo territorio si estendeva fino alla porta di Damasco e alla porta dei Fiori sotto le mura di Gerusalemme. Poco lontano, mio nonno aveva un oliveto su una collina, oggi chiamata la collina francese, con olivi secolari. Mio nonno conosceva ogni olivo, a ciascuno aveva dato un soprannome.

Lì, avevamo una seconda casa, dove andavamo in autunno. Da diversi anni, al posto dell’oliveto è sorto un quartiere residenziale per coloni dell’Europa centro-orientale, che non sanno distinguere un fico da un olivo. Alcuni di quegli olivi sono rimasti in piedi come testimoni silenziosi delle guerre dei conquistatori. Guerre in nome di Dio o degli imperi, che cambiano nome, ma restano sempre le stesse. Il Massacro di Deir Yassin del 1948 costrinse la gente a fuggire, creando la parte israeliana di Gerusalemme. La mia famiglia riuscì a trasferirsi nella casa d’autunno.

Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare città e villaggi palestinesi ci fu sempre un massacro.

Lungo la strada Lifta-Romena fino a via di S. Giorgio, infatti, non si trovano più palestinesi. Le loro tracce furono cancellate. Nahlul è sorto al posto di Mahlul. Gevat al posto Yibat. Kifar al posto di Tell Shaman. Anche i cognomi subirono lo stesso destino. L’autorità giordana decise che il mio cognome, Al Rashid, doveva diventare Khalil.

Tre anni dopo, ridisegnarono i confini tra Giordania e Israele e la mia famiglia fu espulsa nuovamente verso un campo di rifugiati nel deserto giordano. La nostra casa, con tutte le nostre cose, fu espropriata. I nuovi arrivati trovarono una casa pronta e arredata, promessa loro da Dio. La nostra identità fu così definitivamente annientata. La Palestina fu cancellata dalla carta geografica e spartita tra nuovi Stati nazionali creati dalle potenze coloniali europee, a misura dei propri interessi. Generazioni di palestinesi sono nate e cresciute in queste condizioni. Venivamo chiamati giordani e il semplice dirsi palestinesi o esporre la bandiera della Palestina era punibile con il carcere. Quando avevo 11 anni, io, mio padre, mia madre, tre sorelle e un fratello più piccoli di me, vivevamo nel campo rifugiati in una tenda, trasformata lentamente in una casa di fango. Il nostro sogno è sempre stato quello di tornare alla casa di pietra bianca di Lifta.

Grazie all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, abbiamo avuto accesso a istruzione e assistenza umanitaria. A Zarqa, sul margine del deserto, ho camminato per ore ogni giorno per raggiungere la scuola. Nel 1971, dopo il Settembre Nero in Giordania, fui arrestato e incarcerato per sei mesi perché figlio di un leader palestinese. Avevo quasi 17 anni. Mia madre mi portava i libri in carcere perché voleva che studiassi. Sapeva che quella era la chiave per rendere liberi i suoi figli. Nonostante le condizioni disumane della prigione, tra malattie della pelle e sporcizia, una volta liberato, passai l’esame di maturità. A quel punto la mia famiglia e la comunità decisero di mandarmi all’estero per studiare. Nonostante il ritardo per la consegna dei documenti, l’addetto culturale della ambasciata italiana mi prese in simpatia e fece di tutto per farmi partire per l’Italia e farmi arrivare a Parma, per intraprendere il mio percorso accademico.

Arrivai a Parma alle 4 del mattino, solo, con solo il nome di uno studente palestinese da incontrare. Seduto su una panchina vicino alla stazione, osservavo la gente che si affrettava al lavoro, in bicicletta o in Fiat 500. Era una scena straordinaria, piena di vita, lavoro e diritti. Nell’ambiente accademico scoprii un mondo di conoscenza e opportunità. I libri senza censura e le discussioni del movimento studentesco mi avvicinarono alla libertà e all’impegno. L’ingiustizia che abbiamo subito riguarda non solo le vite che abbiamo perso, riguarda la storia passata e il nostro presente. Siamo stati raccontati da una potente macchina di disinformazione che non ha risparmiato nemmeno i libri di storia. Ma la speranza è un obbligo morale, un faro di luce nel buio dell’ingiustizia e della violenza. Continuo a chiamarmi Ali Rashid e continuo a sognare quella casa di pietra bianca.

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