
Il sistema produttivo di Orvieto mostra segnali di fragilità nonostante un’apparente stabilità numerica delle imprese. Secondo il Rapporto 2025 sulla Demografia delle Imprese a cura di Matteo Tonelli, il comune è passato da poco più di 2.000 imprese nel 2019 a meno di 2.000 nel 2025, ma il dato più preoccupante riguarda gli addetti: ridotti di quasi 500 unità nello stesso periodo.
La situazione settoriale
Il manifatturiero rappresenta l’area più critica, con un crollo degli addetti di quasi il 40% nonostante un calo contenuto delle imprese. Anche l’agricoltura soffre, con un calo di manodopera di quasi un quinto. In controtendenza si muovono costruzioni e immobiliare, che hanno beneficiato delle misure di incentivo edilizio.
Dati preoccupanti per il 2024
Nel 2024 si conferma la tendenza negativa: le imprese manifatturiere hanno perso il 6,38% delle unità e ben il 21,11% degli addetti. Il settore turistico e della ristorazione mostra invece segnali positivi, con una crescita del 7,06% degli addetti.
Lo scenario futuro
Se le tendenze attuali continueranno senza correttivi, nel 2030 Orvieto conterebbe meno di 1.900 imprese e poco più di 6.700 addetti. Il rapporto evidenzia come la città si trovi a un bivio: rischia di scivolare verso un modello di “villaggio turistico” o può costruire un’economia più equilibrata.
KPI di monitoraggio
Il rapporto indica cinque indicatori chiave per monitorare la situazione, tra cui il tasso di variazione addetti (target: tornare ≥0% entro il 2027) e la quota addetti in manifattura (perdere < -5% nel 2025-2027).
Fonte dati:
I dati provengono da Infocamere Registro Imprese per le imprese e INPS per gli addetti.
Orvieto non è solo una città antica: è stata, per secoli, il fulcro di un territorio ampio, capace di irradiare funzioni politiche, economiche e culturali ben oltre le proprie mura. Oggi, però, quella funzione appare smarrita. La metamorfosi è compiuta: da città che custodiva un ruolo a villaggio turistico, suggestivo agli occhi dei visitatori ma svuotato per chi lo abita.
I numeri non mentono. Negli ultimi sei anni le imprese sono diminuite di poco, ma gli addetti si sono ridotti di quasi 500 unità. Le piccole e medie imprese si sono contratte, l’agricoltura ha perso manodopera, il commercio tradizionale arretra. Restano il turismo e la ristorazione, che reggono l’intera scena economica: non più un tessuto produttivo, ma un palcoscenico che vive di chi arriva e consuma. A riprova di questa trasformazione c’è anche la mutazione delle infrastrutture di servizio: la ferrovia, che un tempo collegava comunità e territori, oggi funziona solo come via di transito; l’ospedale, che era presidio di cura e identità civica, appare sempre meno radicato nella cittadinanza e sempre più svuotato di ruolo.
Questa metamorfosi non è avvenuta da sola: è il frutto di un declino della classe dirigente, incapace negli ultimi vent’anni di elaborare un pensiero progettuale e di tradurlo in politiche coerenti. In assenza di visione, si è scelto di misurare tutto con la statistica dei turisti, celebrando l’“onanismo turistico” dei numeri di accessi e presenze, come se bastassero a dare sostanza al futuro. Si è preferito investire in ritocchi estetici, facciate abbellitte e slogan suggestivi, piuttosto che affrontare la questione vera: la perdita di vitalità e di funzione economica.
E quando questa vitalità è venuta meno, si è provato a rianimarla con le parole: definire la città “viva e autentica” proprio mentre la sua autenticità e vitalità si andavano spegnendo. Un paradosso che fotografa meglio di qualsiasi dato il vuoto di prospettiva.
Oggi il solco è evidente: da una parte il villaggio turistico, affollato di visitatori che consumano la città come esperienza; dall’altra una cittadinanza che vede restringersi il lavoro, le opportunità e le prospettive. È una frattura che non è solo economica, ma culturale e identitaria. La città antica somiglia sempre più ad una vecchia signora arroccata nella sua rocca: bella da mostrare, ma incapace di narrare, perché priva di pensiero comunitario. Ed è qui che si compie la metamorfosi: Orvieto non è più l’orvietano.
Paolo Lidonni, Presidente Cts








