di Franco Raimondo Barbabella
La notizia che il Gruppo Pellicano ha acquistato la Badia è una bella notizia. Ne ha spiegate molto bene le ragioni Gianluigi Maravalle con riferimento sia all’operazione in sé sia agli effetti diretti e indiretti sulla città e sul territorio orvietano. Come era scontato, la discussione pubblica si è concentrata subito sul tema più inutile: a chi
attribuire il merito del fatto, quando per il fatto stesso il merito non c’entra proprio niente, trattandosi di un puro affare privato. Se di merito si vuole parlare bisogna piuttosto riferirsi, ha ragione Maravalle, alla famiglia Fiumi per aver restaurato a metà anni sessanta l’antico monastero benedettino trasformandolo in albergo e annesso ristorante di alta qualità, segno distintivo di una città che, baciata dalla storia e allora dall’autostrada, cercava la sua via del futuro puntando alto.
Merito del capostipite Giuseppe Fiumi, bravo e coraggioso medico innamorato dell’arte e delle bellezze territoriali, per aver intuito l’importanza della sfida e averla vinta; e merito dei suoi eredi, che hanno saputo gestire e conservare questo bene per arrivare infine alla soluzione di oggi, che promette di aprire una fase certamente non meno importante di quella degli anni sessanta.
Io penso che l’ingresso nel nostro territorio del Gruppo Pellicano sia la novità che costringe di fatto a ragionare in modo nuovo e diverso sul tema cruciale dello sviluppo e del futuro di questa nostra bella e particolare città con la sua particolare e preziosa area territoriale, soprattutto se vi congiungiamo altre significative iniziative di trasformazione urbana quali sono i nuovi alberghi e gli alberghi ristrutturati e da ristrutturare e quella parte degli esercizi di ristorazione che si impegna a curare la qualità.
I privati fanno la loro parte e indicano però una via di valore più generale: pongono di fatto il problema di governare un passaggio. Perché stentiamo a rendercene conto ma è evidente che una fase dello sviluppo, con le sue peculiari caratteristiche di un’epoca al tramonto, si sta esaurendo rapidamente, quella della crescita turistica quantitativa in parte spontanea e in parte guidata, si fa per dire, dal lasciar fare. Una crescita che porta il segno dell’espansione abnorme dei B&B con la contemporanea espulsione degli abitanti e il deperimento degli esercizi di prossimità e dei servizi.
Non è un problema solo di Orvieto naturalmente. I centri storici da tempo si stanno trasformando in non-luoghi, in realtà anonime, omologate, in cui non si percepisce più nemmeno la densità della storia e lo spessore della cultura che ha costruito pietra su pietra una città dotata di una personalità irripetibile. Ecco allora, perdere questa originalità, lasciar progredire lo scivolamento altrimenti inevitabile verso l’anonimato, seppure restino intatti piazze, vicoli e monumenti, è a dir poco un delitto.
L’arrivo del Gruppo Pellicano dà la scossa e invita a ripensare le strategie urbane e territoriali. Il fulcro della svolta può essere la ex Piave, oggi ancor più di vent’anni fa, quando con RPO immaginammo che lì potevano essere realizzate le strutture capaci di valorizzare le potenzialità urbane carenti: l’ospitalità di qualità elevata, la congressistica, la formazione superiore, la ricerca, la produzione culturale, insomma il recupero alla vita urbana di una parte di città capace di dare nuova vita alla città intera e al suo territorio.
Può essere, dicevo, proprio la ex Piave a dare la spinta con l’ispirazione di allora, la città che reinterpreta il suo ruolo e addirittura lo sviluppa ponendosi come centro storico di valore universale nel contesto di un’Italia che ha bisogno di avere punti di sviluppo alto anche con forte valore simbolico. Oggi lì non c’è più bisogno di sopperire alla mancanza di alcune fondamentali strutture dell’accoglienza mentre si possono realizzare attività che facciano di Orvieto un luogo in cui l’Italia mostra sé stessa al mondo.
Torna in sostanza di stringente attualità ad esempio la proposta del MOST, il Museo dei tesori nascosti. Una iniziativa concepita come nucleo di valorizzazione del patrimonio artistico italiano oggi non visitabile, che produce una serie di attività collaterali che trasformano la città, la rivitalizzano e così richiamano gli abitanti oltre a turisti capaci di alzare gli occhi al cielo. Io credo che sia una proposta oggi ancor più realistica di tre anni fa, ma comunque è quel tipo di proposta che oggi appare assolutamente necessaria.
Siamo all’inizio di una riflessione, da fare però alla svelta e da tradurre in una politica. I tempi sono maturi per una svolta. Chissà che questa volta si possa abbassare anche il livello endemico della conflittualità che ci piace tanto per distruggere ciò potrebbe essere fatto con profitto di tutti!








