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Home Cronaca

Esequie di don Enrico Bartoccini, l’Omelia del Vescovo

Redazione by Redazione
14 Maggio 2025
in Cronaca, Secondarie, Archivio notizie
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Il Signore, che “dispone i tempi del nascere e del morire”, ha fatto passare don Enrico all’altra sponda, a mezzogiorno della vigilia della Domenica del buon Pastore. Da diversi giorni la morte era giunta al suo capezzale, ma il “Pastore dei pastori” l’ha “tirato su nel cielo” (cf. At 11,10) quando a Lui è piaciuto, all’ora del Regina Coeli.

La campana, con i suoi rintocchi gravi, ha annunciato a San Giovenale il suo approdo al di là di ogni dolore, di ogni responsabilità, di ogni malattia, in quell’abbraccio in cui tutto si compie. Quando nasce un bambino si dice che “è venuto alla luce” e, con la stessa espressione legata alla luce, quando un uomo muore si dice che “si è spento”. Il linguaggio comune identifica la vita con la luce e la morte con la tenebra. Avvolto nelle tenebre, il mondo a Pasqua è tornato a risplendere, perché il Signore “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10). “Il nostro Signore fu schiacciato dalla morte – scrive sant’Efrem diacono –, ma a sua volta Egli la calpestò come una strada battuta (…). La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa”.

“In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7). Il Vangelo di Giovanni presenta Gesù come “porta” da varcare per “avere la vita in abbondanza” (Gv 10,10). Per superare la soglia della “porta santa” della “casa del cielo” occorre un requisito: la familiarità con il buon Pastore, acquisita mediante l’ascolto della sua voce. “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27). Come le pecore, se docili, riconoscono la voce del buon Pastore, così Egli le conosce nella misura in cui esse ascoltano la sua Parola.

Don Enrico si è fatto conoscere dal Signore ascoltando la sua Parola, cioè “conservando un contatto continuo con le Scritture”, mediante una lettura spirituale assidua e partecipando ai fedeli la ricchezza in esse contenuta, specialmente nella sacra liturgia, tanto come parroco, quanto come canonico penitenziere della nostra Cattedrale. Egli, con il suo estro artistico, ha saputo anche “intingere il pennello in quell’alfabeto colorato che è la Bibbia”. Quasi sempre, andando a trovarlo, mi ha fatto dono degli “schizzi” dei suoi disegni; persino in ospedale, nella Domenica delle Palme, ha voluto farmene uno, indecifrabile, ma oggi in esso riesco a scorgere le parole che l’Autore della Lettera agli Ebrei riferisce a Cristo: “Imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8).

La sofferenza fisica ha riempito fino all’orlo il calice della vita di don Enrico, e tuttavia nemmeno le rughe del patire sono riuscite a velare nei suoi occhi, fino alla fine, la luce della letizia francescana, condensata nel Cantico di frate sole. In questa laude, composta ottocento anni fa, Francesco si scioglie in un commosso inno al Creatore, “altissimo, onnipotente, bon Signore”, e invita il creato ad unirsi a lui nell’accordo della lode. Francesco compone il Cantico non nel pieno del vigore e dell’entusiasmo degli inizi della sua conversione, ma nel momento più buio della sua vita quando, provato nel corpo e nello spirito, sente l’avvicinarsi della morte. Gli studiosi suggeriscono di leggere il Cantico di frate sole a partire non dalle prime sei strofe, ma dalle ultime due. E tuttavia, c’è continuità tra lo sguardo ammirato con il quale Francesco si porta sugli elementi del cosmo e la penombra delle due “finestre” che si aprono sulla sofferenza e sulla morte, chiamata “sorella”. Il “giullare di Dio” si lascia attirare dagli aspetti più duri della vita, senza perdere la nota della letizia. Francesco, angustiato e dolente, trova la forza di cantare la bellezza del creato, “filtrata” e quasi purificata dal Venerdì Santo che guarda alla Domenica di Risurrezione. Oso immaginare che don Enrico, varcando la soglia del Cielo, abbia ottenuto dalla Vergine Maria, da lui venerata a San Giovenale con il titolo di “Madonna del Soccorso”, il permesso di intonare il Cantico delle creature con la sua voce squillante. Forse, don Enrico carissimo, la Madre di Dio ti avrà chiesto di cantare la strofa che meglio ti dipinge: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”.

Fratelli e sorelle carissimi, chiediamo al Signore di accogliere questo fedele servitore della sua Vigna, la chiesa, nella Gerusalemme celeste e di cuore salutiamo e ringraziamo i parenti, che ne piangono la dipartita, con un pensiero riconoscente per quanti lo hanno accudito, soprattutto chi lo ha fatto silenziosamente, gratuitamente, affettuosamente.

+ Gualtiero Sigismondi

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