di Roberto Pace
La Castellana cala il primo asso in vista della Cronoscalata 2024, finale CIVM, a calendario per il prossimo ottobre. Ed è proprio la carta “pigliatutto”, considerato lo spessore del testimonial scelto per l’occasione. Si chiama Pino Allievi, chi segue da vicino il motorsport si starà già sfregando le mani, tutti gli altri, se lo vorranno, comincino a ritagliarsi uno spazio libero per il 23 Ottobre, Mercoledì, data fissata per la presentazione dell’evento. Giornalista, scrittore (almeno sei le pubblicazioni di successo), commentatore televisivo, conduttore di una fortunata rubrica televisiva dedicata al commento del GP, nonché, adesso, collaboratore prezioso di Autosprint.
Articolista, con la A maiuscola, racconta le notizie prendendo spunto da ciò che c’è dietro alle stesse. Traccia, in tal modo, un quadro, molto chiaro, godibile durante la lettura, equo nei contenuti, per consentire a chi legge di saperne sempre qualcosa in più rispetto alle troppe “veline” che fanno la gioia di altri che appaiono ma ne sanno di meno. Fosse per lui, non esisterebbe il ruolo di ‘addetto stampa’ e darebbe subito ai piloti l’opportunità di esprimersi senza filtri esagerati, affinché possano ciò che pensano veramente, rinunciando alle solite frasi preconfezionate.
Allievi, omonimo dell’orvietano più conosciuto come ‘Carbonari’ oggi scomparso, seppe e ricorda tale omonimia.
Chiaro che, per arrivare a tanto personaggio, il Presidente dell’Associazione, Luciano Carboni, si sia affidato ad un super “Gancio”. Identificabile in Massimo Vezzosi, che per la corsa orvietana ha avuto sempre un debole particolare, una gara che, nel corso degli anni lo ha visto primeggiare in diverse categorie, che ha presieduto l’Associazione organizzatrice contribuendone al rilancio unitamente a Paolo Roselli dopo l’uscita di Sante Coscetta.
Luciano Carboni, una volta confermato l’aggancio, è passato alla cura dei dettagli, presto definiti, con la conferma della data, 23 Ottobre e del luogo dell’evento, lo storico Salone nella Residenza comunale.
Libri, tra i più noti, scritti da Pino Allievi nel corso della sua attività giornalistica:
• Vite di corsa. Incontri in pista con piloti, manager, astronauti, cantanti, gente strana;
• Michael Schumacher. Immagini di una vita.
• Ferrari & Ferrari
• Benetton Formula 1. Una storia.
• I love Ferrari
• Mille miglia 1990. Uomini e automobili di oggi e di ieri + Edizioni di altri anni
• Conoscere La Formula 1
Ogni deviazione contiene destino. Anzi, esso si compie solo nei punti in cui uno si trae fuori di percorso”. Al termine di una chiacchierata telefonica durata più di un’ora, è forse questa la frase che, istintivamente, più mi viene da associare alla figura professionale di Giuseppe Allievi. Appassionato di motori, voce narrante di ere del Motorsport a noi ormai lontane, testimone di imprese che hanno oltrepassato la Storia per sfociare nella Leggenda, colui che per gli amanti dei motori è firma storica de La Gazzetta dello Sport vede nascere il suo racconto di vita per via di un bivio, una “deviazione” come la definì appunto Erri De Luca. Perché Giuseppe – anzi, Pino – agli albori della sua carriera sembrava proprio non volerne sapere, di lavorare grazie alla Formula 1…
Parliamo del “personaggio” Pino Allievi: chi è?
Pino Allievi è un pazzo nato sul Lago di Como, appassionato di letteratura italiana, con un padre che le auto le viveva dal punto di vista finanziario, senza occuparsi del lato tecnico della questione. Da questo mix, che ha visto fondersi un animo finanziario con un animo letterario, ne è infine scaturito un giornalista. Giornalista che peraltro, almeno agli inizi, avrebbe voluto occuparsi di cultura, di letteratura per l’appunto. A un tratto, tuttavia, mi sono ritrovato trascinato da un vortice di motori e di automobili: seguivo già da anni le gare per hobby, per pura e semplice passione, e all’improvviso si presentò l’occasione di iniziare a scrivere per La Gazzetta dello Sport. Mi dissi: “Dai, provo per qualche mese”, e invece quel “qualche mese” si è sostanzialmente trasformato in un “per tutta la vita”.
Cosa ha portato Pino Allievi a legarsi con la Formula 1 e il mondo dei motori?
Oserei dire il caso. Ai tempi de La Gazzetta fui fortunato a trovare la conferma di Enrico Benzing, e fui nuovamente fortunato nell’avere l’appoggio di Enzo Ferrari, per la cui Scuderia mio padre aveva lavorato nel periodo in cui in seno al Cavallino di Maranello c’era ancora il Biscione di Arese. In più, confesso che personalmente ero già attratto da quel mondo da diversi anni: assistere alle gare mi piaceva, e la mia indole mi permise di conoscere moltissimi piloti ancora prima che la mia passione si trasformasse nel mio lavoro. Oltretutto, io ho iniziato con le moto. Alla Gazzetta erano alla ricerca di qualcuno che seguisse il Motomondiale, all’epoca seguito quanto se non più della Formula 1, e io per diversi anni sono stato l’unico giornalista italiano a seguire quasi tutte le gare dei campionati in cui imperversavano i vari Agostini, Lucchinelli, Saarinen e Roberts.
Poi, nel 1978, per questioni intestine alla Gazzetta si liberò improvvisamente un posto per seguire la Formula 1, una passione che però non volevo si trasformasse in lavoro. Anche questo ruolo avrebbe dunque dovuto essere provvisorio, perché di persone che avrebbero voluto seguire il Circus ce n’erano già parecchie, ma neppure in questo caso le previsioni si sono avverate. A me, peraltro, abbandonare le moto dispiaceva, perché tra le due ruote c’erano degli aspetti ludici che in Formula 1 (un mondo che avevo già avuto modo di vivere professionalmente in alcune occasioni) invece mancavano. Resta il fatto che iniziai nel 1978, con il Gran Premio d’Argentina, e proseguii con quello del Brasile, immediatamente successivo al primo. Dopodiché mi chiesero di andare anche a quello del Sudafrica, in attesa che prendessero un nuovo giornalista, ed è finita che ho dovuto aspettare 30 anni prima che arrivasse qualcuno al mio posto. È stato un bene, comunque, che le cose siano andate così, perché la Formula 1 è un mondo che ti penetra fin dentro le ossa, che ti lascia una visione del mondo diversa da qualsiasi altro ambito: raccontare questo sport in maniera seria – e non cialtronesca – fa sembrare improvvisamente facile raccontare tutti gli altri mondi, ti dà una completezza che nessun altro ambiente riesce a darti.
In F1 hai vissuto periodi molto diversi dal punto di vista della comunicazione: c’è un periodo che torneresti a raccontare più volentieri?
Parto subito con il dire che il mio non è un discorso nostalgico: a qualunque età è ormai pieno di persone che sostengono che tutto era più bello prima, e io non appartengo a questa schiera. Se di rimpianto si può parlare, io rimpiango la Formula 1 degli anni ’80: era libera, e dunque bella da raccontare. Ricordo che nei primi anni della mia carriera ero spesso in trasferta senza automobile, ma altrettanto spesso ero negli alberghi in cui dormivano piloti e team manager e dunque arrivare in circuito non è mai stato un problema: erano i piloti stessi ad offrirti un passaggio, un qualcosa di impensabile per la Formula 1 moderna. Avevi la possibilità di instaurare dei rapporti che duravano tutta una vita, e sui piloti avevi la possibilità di scrivere davvero dei libri, dei romanzi. Ora è tutto il mondo della comunicazione sportiva che è peggiorato, e credo che a portarlo qui dove siamo ora sia stata proprio la F1: d’altronde uno dei primi atleti di caratura mondiale ad avere introdotto la figura dell’addetto stampa personale è stato un certo Michael Schumacher; quindi, per certi versi si può dire che la Formula 1 abbia fatto scuola da questo punto di vista.
In questo nuovo contesto comunicativo, un giornalista come racconta un mondo protetto spesso dal filtro dell’Addetto Stampa?
Per certi versi, questa tipologia di comunicazione ha dato vita a una sorta di giornalismo… malato. Ormai molte dichiarazioni sono uguali per tutti, eppure in parecchi fanno finta di avere avuto l’occasione per intervistarlo a quattr’occhi imbastendo un botta e risposta che in realtà non c’è mai stato: questa, nello specifico, credo che sia la più grande malafede della storia della Formula 1. Prima dell’era Schumacher, uno stesso pilota poteva rilasciare nello stesso giorno due interviste su tematiche totalmente differenti: ora un qualcosa del genere non solo non è più fattibile, ma per certi versi non è più neppure pensabile. Oltretutto, a mio avviso, questo modo di porsi nei confronti dei giornalisti è anche un’arma a doppio taglio dato che avere un filtro così invadente come quello degli Addetti Stampa ti pregiudica – e non poco – il ritorno d’immagine che si potrebbe avere da un’intervista più vera. La Formula 1 attuale, quella che viene raccontata attraverso una serie di risposte che dicono sempre la stessa cosa, non è percepita come “bella”.
Viene da pensare che ora sia più semplice sostenere di avere raccontato qualcuno che non raccontarlo davvero…