di Laura Ricci
Poche, pochissime ore ci separano dal ballottaggio dei prossimi 23 e 24 giugno 2024 per scegliere, tra Roberta Tardani e Stefano Biagioli, chi sarà a capo del governo della città di Orvieto. Il sindaco o la sindaca, certo, ma anche le probabili giunte e il consesso di consiglieri e consigliere che, a seconda di chi verrà scelto, si occuperanno del bene comune: non è una questione di importanza secondaria e prima di votare, invece di lasciarsi andare alla tifoseria e al leaderismo che persino in politica imperversano nella nostra epoca, bisognerebbe riflettere bene anche in questo senso.
Tra le molte voci che si levano di fronte all’inspiegabile scelta dei respinti e mancati apparentamenti con le liste di Stefano Biagioli, fedele al motto della mia vita – “Fare ogni giorno il poco che dipende da sé” – per quel poco che vale sento anch’io il dovere di condividere qualche considerazione: come cittadina, ma soprattutto come giornalista, e come persona che crede che la Politica, quella con la P maiuscola, sia in ogni gesto e in ogni atto della vita, anche in quelli più semplici. Anche nel cosiddetto civismo.
Premetto che, ove legittima, rispetto ogni scelta, tanto più che ognuno ne è responsabile, ma questo non esime dal poter esprimere un giudizio: politico, e civico, perché Politica e Civismo non sono opposti – le maiuscole sono intenzionali – ma ineludibilmente si compenetrano. Stupisce, dunque, che quel civismo di cui in questi mesi si sono riempiti comunicati e discorsi venga addotto, insieme alla democrazia e al rinnovamento, come nobile pretesto per scelte che appaiono invece irresponsabili e autolesioniste e che consegnano, almeno formalmente, la città a quello che fino a ieri era l’avversario, senza neanche provare a contrastarlo, deponendo ogni speranza e ogni fiducia nella possibilità.
Concordo pienamente con la lucida analisi di Claudio Lattanzi e non starò a ripetere quanto da lui è stato egregiamente articolato, ma sottolineo, con lui, quanto sia errato e pericoloso intendere il civismo “come declinazione qualunquistica dell’anti politica” e come, se si è davvero civici, si possa collaborare all’interno di una coalizione per l’attuazione del proprio programma. Chi può farlo meglio di un vice sindaco e di un assessore? Che significa respingere la possibilità di ruoli importanti e onorevoli, pur se non di leadership assoluta? Tanto più quando sono suffragati dai risultati elettorali. E questa considerazione, per quanto mi riguarda, è rivolta non solo alla compagine di Roberta Palazzetti, ma anche a Nova.
Non è solo la carica che fa l’autorevolezza, è il fare, è la fedeltà ai nostri obiettivi nel fare e talvolta l’Umiltà – quella maiuscola dei Grandi, delle Grandi, dei Maestri e delle Maestre – nell’accettare e nel perseguire le concrete possibilità. Essere civici, inoltre, non significa essere contrari a un’alleanza politica con un partito, tanto più quando il candidato è civico, ma semmai perseguire una politica realisticamente alta, che non è partitica ma che non può prescindere dall’avere un lucido senso politico e dal cogliere, in modo onorevole ma non rigido, le opportunità.
Se volessimo parlare di democrazia, poi, il senso politico, e quello civico, dovrebbero semmai suggerire di rispettare, con le scelte formali, quel 55% di elettrici e di elettori che hanno scelto, effettivamente, il rinnovamento, non permettendo alla compagine di Roberta Tardani di passare al primo turno. La coerenza non è miope rigidità, è la capacità di mantenere intatti gli ideali e gli obiettivi assestando, se serve, la rotta: politica è arrivare con onore alla meta, anche cambiando la strada sperata e prevista, non farsi male e far male alla polis per non cambiare la strada.
Ma quel 55% esiste in ogni caso, forse un poco deluso ma no di certo inerme, pur se una parte è orfana di indicazioni di voto; che sarebbero state auspicabili non perché chi vota va guidato – non siamo bambini inconsapevoli e sperduti – ma per reale coerenza e trasparenza verso i propri elettori: una percentuale considerevole di voti richiederebbe una strategia comune, non lo scioglimento delle truppe. Quella che doveva essere la “città ideale, unita, solidale, che non lascia indietro nessuno”, in realtà sta lasciando indietro le sue elettrici e i suoi elettori.
Ma giacché non sono solo gli/le aspiranti sindaco gli attori del cambiamento, ma anche e soprattutto chi li delega con la scelta elettiva, non voglio perdere, fino all’ultimo, la speranza. Voglio sperare, invece, e caldamente invito a un sussulto di civismo vero, a una sana e composta indignazione che riprenda in mano, senza pregiudizi, senza recriminazioni, senza livori e con il gesto semplice e grande del voto, il cambiamento che la città esige. Così come auspico una partecipazione, sia pure parziale, di quel 30% che non è andato a votare. Sarebbe bello se il civismo progressista si affermasse nonostante tutto, sarebbe una grande lezione politica: talvolta la società civile può essere più saggia di chi aspira a guidarla. Ma se così non sarà mi inchinerò al risultato: pur se non tutti e tutte lo meritano, ogni città ha il governo che sceglie.