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Home Cultura

Il Pozzo del Santo Patrizio: la geniale idea

Redazione by Redazione
21 Marzo 2024
in Cultura, Secondarie, Archivio notizie
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Voce di Sophia Angelozzi

di Mirabilia Orvieto

Avete mai sentito quest’espressione: “Profondo, o misterioso, come il Pozzo di San Patrizio”? Quasi certamente sì. Perché si tratta di una frase proverbiale che affonda le radici in un’antica leggenda. E cosa c’è di meglio che immergersi nelle cronache del passato per conoscere una storia così affascinante? Il nostro racconto, a dire il vero, dovrebbe cominciare dall’Irlanda, invece siamo in Italia, ad Orvieto, cinque secoli fa. Diceva in quel tempo Giorgio Vasari: “È certo che gli antichi non fecero mai edifizio pari a questo né d’industria né d’artifizio“.

È la vigilia di Natale, del 1527. Papa Clemente VII (al secolo Giulio de’ Medici) s’aggira nervosamente per le gelide sale del palazzo apostolico, l’aria cupa, la testa bassa, le mani contratte, le dita intrecciate a esprimere il nodo dell’angoscia che gli opprime il cuore. La barba incolta e grigiastra, lunga di sette mesi, gli scende dal mento fino a lambire il petto: non se la taglia, in segno di lutto, dai giorni terribili del sacco di Roma, da quelle orrende due settimane di maggio che hanno visto scatenarsi nella Città Eterna la furia barbarica dei lanzichenecchi.

E ora, esule a Orvieto, ripensa con amarezza alla notte recentissima, quella del 7 dicembre, quando, travestito in abiti da plebeo, dopo aver sborsato 112.000 ducati di riscatto è riuscito finalmente a lasciare Castel Sant’Angelo e a fuggire da Roma.

Clemente VII

Orvieto è un rifugio sicuro? Niente affatto, pensa il Papa e il pensiero diventa ossessione. Perché un dubbio lo tormenta: e se gli Alemanni di quel Frundsberg maledetto tornassero alla carica? Se gli venisse la voglia anche di assalire Orvieto? Quanto si potrebbe resistere ad un assedio, tra le mura di questa cittadella arroccata su di un piccolo e arido altopiano? Il Papa ne parla con i suoi consiglieri. Gli dicono: “L’unico vero problema è l’acqua. Le acque sono a valle, e se qui non piovesse, e gli Alemanni ci stringessero d’assedio, saremmo perduti“.

Giulio de’ Medici non vuole sentire altro. Ha subito un’idea. Conosce il genio architettonico e ingegneristico di Antonio Sangallo il Giovane. Il Papa è sicuro che il Sangallo saprà risolvere il problema e l’illustre architetto, che nel 1520, succedendo a Raffaello Sanzio, è stato eletto capomastro della fabbrica di San Pietro, viene chiamato senza indugi alla presenza del papa. Ed ecco che il Sangallo, con il suo praticissimo ingegno, non tarda in effetti a escogitare la soluzione per l’acqua. Un’idea tanto semplice e perfetta quanto ardita e fantasiosa. Nella sua mente è nata l’idea del Pozzo.

Il pozzo più incredibile che fantasia umana abbia mai concepito nella storia fino a quel giorno. Quando il Papa vede il progetto strabuzza gli occhi, barbuglia una frase di stupore, ma non ha esitazioni. Dà immediatamente l’ordine che si comincino i lavori. Gli operai si mettono a scavare, ma la roccia è dura assai. Sei mesi dopo, nel giugno del 1528, il papa lascia Orvieto. Si trasferisce a Viterbo, per essere più vicino a Roma, ma prima di partire ordina: “Costi quel che costi, voglio comunque che il pozzo sia finito“.

E così avviene, ma solo nove anni dopo! L’opera giunge a compimento nel 1537, quando Clemente VII è già morto ormai da tre anni, ed è un capolavoro d’arte e d’ingegneria, che sembra studiato apposta per evocare immagini di sogno e fantasmi di favole tenebrose. Quando fu costruito, il fantastico pozzo di Orvieto fu subito battezzato col nome di Pozzo della Rocca, ma col passare degli anni, nacquero intorno ad esso, fatalmente, le leggende.

Irlanda

Bastava affacciarsi sull’orlo di quel cilindro misterioso perché l’immaginazione prendesse a volare. Quelle finestrelle impilate, aperte come vuote occhiaie sull’oscurità delle viscere terrestri, qual vortice abissale, che sembrava affondare alle radici del mondo, nell’ignoto, o forse in un altro mondo…negl’inferi, nell’aldilà? Ed ecco rivivere nella fantasia del popolo le antiche leggende delle “discese nell’Ade”: le imprese di Ulisse e di Enea, il regno ipogeo visitato da Cristo, l’inferno di Dante, le visioni di Bonvesin della Riva e di Giacomino da Verona, e poi Alberico, e Tundalo e San Brandano.

Sopra tutte quelle reminiscenze ve ne una che s’impose e pian piano finì per coniugarsi col fascino del Pozzo orvietano: fu la leggenda, ancor vivissima nel Cinquecento, del cosiddetto “Purgatorio del Santo Patrizio” d’Irlanda, una delle fonti ispiratrici della “Divina Commedia” dantesca. Passarono i secoli e la leggenda fiorì, arricchendosi e complicandosi. Si cominciò a dire che la caverna, profondissima, era in realtà l’imboccatura dell’inferno e si immaginò la figura di una cavaliere, Ivano, che, persuaso dal consiglio di una santo monaco, un bel giorno decide di avventurarsi nella misteriosa grotta per visitare i regni d’oltretomba e far penitenza delle proprie colpe.

Ivano, come Dante, ascese di grado in grado le tappe della perfezione celeste, fino ad accecarsi davanti alla luce sovrannaturale del Creatore. Infine, redento, esce dalla caverna e torna tra gli umani. “Ma allora, il Pozzo di San Patrizio di Orvieto – si chiede Aurora Cantiniha – davvero perso per sempre quel sottile legame con la leggenda del suo passato più remoto? Può, ancora oggi, essere considerato un varco per l’Aldilà, un punto di contatto col mondo ultraterreno? Immaginiamo di scendere gradatamente le scale, in un percorso di luci ed ombre sapientemente miscelate, tra muri che trasudano umidità stratificata da secoli, dove, se tendiamo l’orecchio, potremmo ancora percepire il calpestìo dei muli col loro fardello; procediamo oltre, sempre più in giù, verso l’ignoto“.

Pozzo di San Patrizio

È proprio quell’ignoto, così spaventoso, a farci nascere il desiderio di tornare indietro, di non addentrarsi più di tanto. La struttura ad elica che vertiginosamente si avvita nelle viscere della terra, in uno spazio sempre più buio e rarefatto di aria, fa pian piano riaffiorare immagini, pensieri e stati d’animo che ci accompagnano alla sorgente posta sotto di noi. Per alcuni, quella del Pozzo non è solo una discesa materiale. In una poesia si dice: “È scendendo nell’abisso che recuperiamo i tesori della vita“.

Così la stessa caverna in cui si ha paura d’entrare e dove sembra di sprofondare, si rivela essere la fonte di quello che si sta cercando. Il buco oscuro, così temuto, è diventato il centro di noi stessi, il centro del mondo, che ci conduce all’Acqua della Vita. Il Pozzo diventa allora l’inconscio che non è solo il luogo del rimosso, ma il pozzo delle infinite possibilità a cui può attingere l’uomo!

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