di Mirabilia Orvieto
“Ogni investimento nella cultura è un investimento ben speso ai fini della crescita del nostro Paese“. L’affermazione è del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ed è stata pronunciata tempo fa durante la visita agli Scavi di Pompei. È noto che “il nostro Paese ha il patrimonio artistico e culturale più grande del mondo e quindi nasce l’esigenza non soltanto di tutelarlo e conservarlo, ma di valorizzarlo, che è un dovere nei confronti della nostra storia, del nostro futuro e del mondo intero. E quindi ogni investimento che viene fatto tiene conto di questo dovere e di questa straordinaria convenienza per il nostro Paese con ricadute economiche e benefici sociali indiscutibili“.
Ne consegue che monumenti iconici come il Duomo di Orvieto e il Pozzo di San Patrizio rappresentano un bene prezioso non soltanto per la città. Essi rappresentano un bene fondamentale anche per la nazione. Ma come metterli a frutto? La risposta ci viene da quelle attività imprenditoriali che dovrebbero lavorare, fianco a fianco, con le istituzioni in un clima di massima cooperazione. Prendiamo, per esempio, il progetto “Impresa fa cultura” della Regione Lazio la quale ha investito risorse economiche importanti con cui si è dato sostegno a 48 progetti innovativi proposti da 65 imprese, micro, piccole e medie, per la valorizzazione e fruizione dei Luoghi della Cultura.
Si è visto che scommettere con più convinzione sulla bellezza e sulle eccellenze di una Regione è una delle grandi opportunità per creare lavoro di qualità e sviluppo. Ma purtroppo a rendere più difficile il compito sono due posizioni contrapposte, praticamente due facce della stessa medaglia. Da un lato c’è la visione miope di chi afferma che “con la cultura non si mangia“, che non serve a nulla sviluppare progetti per migliorare la fruizione dei nostri monumenti perché quello che conta è accedervi fisicamente. Insomma basta e avanza quello che già c’è; dall’altro la convinzione che valorizzare un monumento significa proporre un modello di sfruttamento turistico-commerciale. Questa considerazione, forse più miope della prima, rischia di far adagiare pigramente gli enti locali su una posizione di stallo secondo cui il patrimonio artistico è in grado di produrre ricchezza da solo, quasi magicamente, per il solo fatto di esistere, senza un vero investimento.
Ebbene, così si rischia di considerare la cultura come un “giacimento” da sfruttare, praticamente una semplice rendita. Tale approccio è una delle cause principali che impediscono di trasformare i beni culturali da luoghi morti, dove ci si limita a gestire l’esistente, a luoghi vivi, capaci non solo di conservare il patrimonio culturale ma anche di produrre nuova arte e cultura, e dunque innovazione.
Non basta dunque credere nella bellezza, serve invece la capacità di fare di questa bellezza un ‘fattore’ di attrattività a partire dai maggiori beni culturali della città come il Duomo e il Pozzo di san Patrizio il cui valore non è solo estetico. In un mercato dove il consumatore è sempre più evoluto emerge la necessità di considerare il turista non più come uno spettatore passivo, ma al centro dell’esperienza di visita che deve trasformarsi in un evento da vedere, ascoltare e meditare. In questo modo si aiuta il visitatore a diventare un contemplante, e cioè a fare un’esperienza personale e totale dell’opera d’arte in grado di trasformarlo da semplice spettatore a co-protagonista dell’opera.
Ci si pone la domanda: investire in cultura o conservare? Essere oggi custodi della bellezza non significa forse riscoprirne il valore, trasmetterne il messaggio attraverso nuove modalità di comunicazione più adatte ai nostri tempi?