di Felice Roberto Danielli
Nel 1872, nella necropoli longobarda dell’Arcisa a Chiusi, viene ritrovato un anello sigillo d’oro con il motto Faolfus in latino barbarico poi tradotto in Farolfo. Forse un familiare del re longobardo Alboino che invase l’Italia nel 568 d.C. e quando conquistò Chiusi (570-572 d.C.) costituì il ducato di Chiusi assegnandolo alla casata di Faolfus detta poi dei Farolfingi avendo assunto Farolfo come capostipite della stirpe Farolfi, Peponi, Manenti.
Anello-sigillo d’oro trovato a Chiusi nella necropoli longobarda dell’Arcisa nel 1872, scritto in latino barbarico, conservato a Firenze, Museo Nazionale del Mugello.
Oggi dopo gli studi di Amleto Spicciani, dopo la pubblicazione del Registro di Sarteano di Fanello Fanelli, le memorie storiche di Sarteano e il Codice Diplomatico di Domenico Bandini e il Codice Diplomatico dei Manenti di Franco Fè (1016-1229) è possibile ricostruire, anche se non totalmente, l’albero genealogico a partire dagli anni 1000 fino oltre il 1300 della stirpe Farolfi, Peponi, Manenti.
Esistono ancora 8 metri di pergamena dell’Archivio Bandini all’Archivio di Stato di Siena che debbono essere studiati e che potrebbero dare ulteriori importanti notizie sul nostro territorio. Nonostante la scarsità dei documenti è stato possibile ricostruire la genealogia in base agli atti di donazione, cessione e vendita fatta ai vescovi, ai monaci ed ai preti, di castelli, terreni, chiese e mansi.
Negli atti stipulati non viene mai descritto il titolo di proprietà in quanto i venditori discendenti dei Longobardi detenevano il possesso come bottino di guerra avendo esercitato il diritto di preda ed anche dopo la sconfitta subita per mano di Carlo Magno (774 d.C.) benché sottomessi si erano visti riconoscere il dominio sulla stragrande maggioranza dei territori posseduti.
Alla stesura degli atti parteciparono sempre molti testimoni rappresentativi delle aree interessate, nobili e gente del popolo che confermavano il dominio del bene nel tempo del venditore affermando di fatto così un diritto di usucapione, anche se non dichiarato, accettato dagli eruditi ecclesiastici che spesso sono gli estensori degli atti, non essendoci mappe, i confini venivano circoscritti a parole.
Loc. Colle Bisenzio dove si trovano i ruderi detti della “Torraccia” che sono i resti della Pieve delcastello di Bisenzio di epoca alto Medievale situato sopra Loc. Le Spiagge, a ridosso della strada più antica che da Orvieto si raccordava con la strada Perugina in loc. Osteria per poi proseguire per Poggio Spino fino a raggiungere le Terme di San Casciano Dei Bagni, itinerario utilizzato anche dagli Etruschi perchè era il più breve percorso.
Da questi atti si può delimitare l’area occupata dal Ducato Longobardo di Chiusi e le proprietà dei Farolfi, Peponi, Manenti, che vanno dal Monte Amiata al Trasimeno, toccavano la sponda destra del Tevere, a Marsciano e Todi, a Bagnoregio, Orvieto, Bolsena. La prima presenza dei longobardi ad Allerona si manifesta con la costruzione del Castello Plagario (Meana) forse riedificato sulle macerie di un avamposto di epoca romana, sono ancora visibili intorno ai resti del castello dei blocchi di cementizio di epoca romana, (nello stesso tempo i superstiti del villaggio etrusco-romano di Sant’Ansano distrutto dai barbari Goti o Longobardi, cominciarono a costruire il castello di Lerona). In vari modi è documentata la presenza e la proprietà del barone Pietro detto Pepo o Pepone dei Farolfingi nel castello della pieve di San Giovanni di Monte Plagario (Monaldo Monaldeschi) o Monte Palgaro (Carpentier); le decime versate a Roma da Pepone e dai suoi successori per la pieve di San Giovanni, Monaldo Monaldeschi (1522-1590) nei Comentari Historici quando elenca le località conquistate dalla famiglia Monaldeschi elenca le terre de castra Plagario al terzultimo posto di 61 località e non cita certo Meana che non esisteva e quando cita un fatto del 972 parla di Pepo dominatore della Val di Paglia e di altri Cittadini di varie nobili casate.
Pivieri e Castra en 1278 (Carpentier) 8) Piviere di San Giovanni di Monte Palgaro (Meana).
Ma tornando al titolo del presente articolo, l’appassionato di storia alleronese, Felice Roberto Danielli, ha trovato lo stimolo facendo una serie di ricerche, leggendo uno stralcio del libro della Passio di Pietro Parenzo scritta dal canonico Giovanni di Orvieto il quale narra della presenza al castello di Lerona di un “Castellanus de Lerona” al quale l’autore attribuisce incredulità riguardo ai miracoli attribuiti a Pietro Parenzo, lo scetticismo era dovuto all’opera di Parenzo e dei suoi successori (mandati dallo Stato Pontificio) nella lotta agli eretici che furono particolarmente duri nel voler ripristinare l’ortodossia cattolica confiscando beni ed abbattendo, radendo al suolo chiese, castelli, torri, mansi delle famiglie nobili che ospitavano od avevano rapporti di qualsiasi tipo con gli eretici. Castellano de Lerona era nel 1200 il conte Manente II dei Farolfingi (6ª generazione dei Farolfi, Peponi, Manenti) che aveva ben presente i danni subiti dal suo territorio.
Tutti i territori dei Farolfingi in particolare Allerona, subirono gravi devastamenti, Danielli pensa che l’accanimento fosse dovuto anche per ottenere vendetta contro Pepone e i suoi successori per gli atti ostili compiuti precedentemente.
Stralcio mappa di Egnazio Danti del 1583 Segnalate lacalità: – S. Onna; – Bandita del Monte; – Osteria; – Ripagra/Lipraga/Lepraia/ Leprara.
Un episodio che scatena la vendetta accade nel 1062 quando avviene lo scontro con lo Stato Pontificio, come confermano gli “Annales romani” il conte Pepo o Pepone organizzò e guidò l’esercito regio dell’antipapa Onorio II (Cadalo di Parma), nominato dal re carolingio Enrico II, nella battaglia “in Prata Neronis” del 14 aprile 1062, quando l’esercito dell’antipapa prevalse sui sostenitori di papa Alessandro II, Pepone vinse quella battaglia, ma perse la guerra. Infatti successivamente le sorti della contesa volsero a favore del papa Alessandro II che era sostenuto anche dalla marchesa Beatrice di Tuscia e per Pepone comincia l’emarginazione ed inizia la fase decadente della famiglia da quel momento sempre avversata dallo Stato Pontificio e dagli ecclesiastici che delegittimavano anche il prestigio della loro nobiltà.
Un altro episodio cruento può aver provocato la vendetta delle gerarchie ecclesiastiche contro il patrimonio e gli uomini dei Farolfingi, le ritorsioni avvengono nei territori lontani dai centri di potere dove sono le milizie dei Farolfingi, concentrati a Sarteano, Chiusi e Chianciano e per questo meno difesi e non difendibili.
Lo storico Cipriano Manenti narrando con le sue Historie l’espisodio, cerca di mitigare le responsabilità dei suoi antenati Farolfi, Peponi, Manenti, addossando le responsabilità genericamente agli imperiali.
L’episodio riguarda i conti Bovacciani o Bovaccini, signori di Ficulle, discendenti di un ramo dei Farolfi, Peponi, Manenti, che erano diventati papalini e per questo inviati a Chiusi nella speranza che per i comuni antenati avessero trovato accoglienza e tolleranza, invece narra Cipriano Manenti (n. 1502 m. 1570) “et in quest’anno (1099) i conti Bovacciani da Orvieto furono in Chiusi tutti uccisi (trucidati), dalla parte imperiale, che solo restò un piccolo fanciullo di dieci anni che dai servitori con astuzia fu trafugato e condotto a Chianciano, dai suoi parenti, i Bovacciani inviati a Chiusi dal Vescovo a reggere le sorti di Chiusi, in un territorio dominato dai Farolfingi”.
Prima con la lotta agli eretici poi con lo scontro Guelfi/Monaldeschi contro Ghibellini/Filippeschi, i Monaldeschi fecero il lavoro sporco per lo Stato Pontificio conquistando il territorio dei Filippeschi ampliarono il loro dominio verso la Toscana anche a nome del Vescovo, cosa che non era riuscita direttamente allo Stato Pontificio.
Monaldo Monaldeschi nel libro di “Comentari Historici” narra dei “Conti Manenti, che avevano dominio in Sarteano, Lucignano ed altri luoghi, erano parimenti Baroni e Domicelli Orvietani ma per essere essi Gibellini (ghibellini) restarono privi dei loro domini: e per morte e mancamento d’huomini, annichilati e spenti”.
Danielli, pensando ai danni subiti dal territorio, dopo aver studiato le mappe fatte dalla Carpentier sui confini del contado orvietano del 1278 e la mappa di Danti del 1583, ha individuato i toponomi di località oggi non più esistenti di cui si è persa la memoria, pertanto Danielli, armato di pala e piccone, ha rastrellato il territorio all’interno dei boschi e boscaglie andando a ritrovare le testimonianze dell’esistenza remota di queste località che consistono nelle fondazioni e se va bene in qualche pezzo di muratura, perché sono state tutte rase al suolo metodicamente, sono qui brevemente elencate:
1) Castello di Ripagra/Lipraga/Lepraia/Leprara e chiesa di S. Michele Arcangelo;
2) Castello della Pieve di Sant’Onna (S. Abbondio);
3) Castello di Monte Rufeno e chiesa di S. Sebastiano;
4) Castello della Pieve di Bisenzio (i ruderi sono sopra la Loc: le Spiagge e sono detti “La Torraccia”;
5) L’Osteria sulla stra Perugina tra Villalba e S. Pietro;
6) La Bandita del Monte, le fondazioni sono a mezza costa del Poggio delle Reti nelle vicinanze di un laghetto di acqua sorgiva;
7) Castello della Pieve di San Giovanni di Monte Palgaro (Meana) qui il tentativo, riuscito in parte, oltre a distruggere il castello e la chiesa hanno imposto sui documenti il nome di Meana, il castello Plagario/Palgaro ecc. è diventato “casserum Meane” e la chiesa Pieve di San Giovanni diventa “San Giovanni Meane”, l’intento era di cancellare ogni ricordo e riferimento a Pepone ed alla famiglia dei Farolfingi. Le modalità dell’esecuzione delle distruzioni sono un marchio di fabbrica dello Stato Pontificio nei secoli seguenti, episodio analogo avviene contro il Ducato di Castro (20 settembre 1649) in dimensioni diverse ma con le stesse modalità.
Altre località che Danielli pensa abbiano avuto le stesse devastazioni sono:
1) la Pieve di Stennano o S. Stendano tra Morrano e Colonnetta di Prodo;
2) S. Donato tra Benano e l’Altopiano di Bardano;
3) L’Abbazia/Monastero e la chiesa di San Pietro di Acqua Alta tra Castel di Fiori e Poggio Croce dove è stata rinvenuta una necropoli Longobarda, punto simbolico importante.
Queste località, oggi scomparse, erano di proprietà di rami diversi discendenti dei Farolfingi. Molte distruzioni riguardano chiese ma dall’archivio vescovile non risultano documentazioni che si riferiscono agli episodi narrati, probabilmente distrutti dall’incendio che ha interessato l’archivio vescovile negli anni 1000/1200.