di Claudio Lattanzi
L’emotività gioca spesso brutti scherzi cosi come la comunicazione politica gestita senza accortezza produce effetti negativi. Sono i due ingredienti principali collegati alla contestata ipotesi di realizzare una rems, cioè una residenza per detenuti con patologie psichiatriche e socialmente pericolosi all’interno della ex mensa della caserma Piave. Il polverone che si sta alzando intorno a questa possibilità ruota intorno alla questione di un presunto allarme sociale per la presenza di criminali da accogliere nella rems e, in subordine, al luogo in cui eventualmente ubicare la struttura.
Sulla prima questione, le argomentazioni non sembrano irresistibili per il comprensibile motivo che per gli ospiti della rems non è evidentemente pensabile uno stile di vita quotidiana che preveda la possibilità di andarsene tranquillamente in giro per la città, con il rischio di incontrarli a prendere il caffè al bar del tennis.
Del resto, nemmeno gli stessi detenuti del penitenziario di via Roma hanno evidentemente un rassicurante pedigree da gentleman, ma sono, appunto, detenuti. Sul tema dell’ubicazione, non c’è dubbio che sarebbe stato necessario fare ogni sforzo progettuale per collocare lì e non in piazza duomo la futura casa di comunità, soprattutto come primo passo per il rilancio del complesso ex militare, per cui la scelta di quel luogo appare senza dubbio discutibile anche perchè comporta un’ipoteca sull’area in vista di utilizzi futuri.
Un conto è pero’ decidere di accogliere o meno un certo servizio pubblico, un altro discutere sulla migliore soluzione immobiliare. Anche l’argomentazione collegata al fatto che la rems rischierebbe di compromettere la buona immagine della città regge poco perchè altrimenti tutti i sindaci farebbero le corse per spostare le case di reclusione dai loro comuni. Sullo sfondo restano tuttavia due questioni serie che dovrebbero essere valutate in maniera approfondita. La più importante è legata al fatto che la rems (unica per tutta la regione), struttura gestita in autonomia dalla Asl, ma collegata funzionalmente alla casa di reclusione, rappresenterebbe un importante elemento di consolidamento per il futuro del penitenziario il cui mantenimento non appare oggi formalmente in discussione, ma che nella sostanza potrebbe presto diventarlo dopo la nefasta sopressione del tribunale, trovandosi sempre i tribunali in città dove esiste un penitenziario mentre il contrario è meno frequente e comunque si tratta di penitenziari depotenziati.
L’altro elemento da valutare è quello relativo alla creazione di nuovi posti di lavoro per figure specializzate da impiegare nella rems. Non proprio una questione trascurabile neanche questa. Certo poi le scelte bisogna anche saperle comunicare. Non si può dire come ha fatto (con parole meno brutali) l’assessore regionale Coletto “Abbiamo avuto l’idea di mettervi un manicomio criminale nella ex Piave”, ma sarebbe sconsigliabile anche spiegare come ha fatto il vice sindaco Mazzi che “La Regione ha scelto di collocare la rems nella ex mensa perchè, avendola comprata dal Comune nel 2008, adesso teme una azione da parte della Conte dei Conti per un possibile danno erariale”.
Presentando così la cosa, si è poi costretti a giocare in difesa avendo lasciato ampi spazi alle legittime preoccupazioni di chi teme di ritrovarsi davvero Luigi Chiatti davanti al pozzo di san Patrizio e all’opportunismo di chi strumentalizza tutto per interessi di bottega politica. Certo se Orvieto fosse una città in cui la politica ancora esistesse e dove ci fosse una discussione proficua di cosa fare dei grandi spazi inutilizzati sarebbe tutto più facile. Anche qualche attenzione maggiore al sistema di comunicazione pubblica aiuterebbe soprattutto su questioni delicate come questa. Terrorismo psicologico, strumentalità politica, isterismi da social e voglia di protagonismo personale lasciamoli al loro posto e facciamo un fioretto per il nuovo anno: valutare ciò che è meglio per la comunità con il buon senso e l’intelligenza che dovrebbero essere tipici degli adulti.