Di Danilo Stefani
“State a casa” e “Andrà tutto bene”. Le frasi ripetute come una preghiera durante la pandemia riecheggiano tra le pareti. Scolpite nella “casa, dolce casa”. Frasi persino beffarde, ora, nel ricordo di quegli avvenimenti. Non andò bene e poteva andare peggio.
Andò peggio a l’Aquila il 6 aprile del 2009, quando 24 persone persero la vita tra le macerie della Villa comunale crollate per il terremoto delle ore 3.32 (in totale, i morti furono 309). Ma in fondo è stata anche colpa loro, perché quella notte non scapparono lasciando le loro abitazioni mettendosi al sicuro (il sisma fu dello 6.3 della scala Richter, e distrusse la città) quando intorno alla mezzanotte ci furono le prime scossette. È quello che stabilisce la sentenza del tribunale civile dell’Aquila – incurante dello sciame sismico che persisteva ormai da mesi nel territorio. Per il giudice la “condotta incauta” delle vittime può stimarsi in un concorso di colpa del 30 per cento.
I familiari andranno avanti in appello, intanto rimane questa sentenza; più inquietante di un terremoto, più stordente di una casa che traballa, perché lacera tante coscienze.
“Le sentenze non si criticano, si rispettano”, ha detto qualcuno in tante occasioni. Ciò non può togliere il senso di vuoto allo stomaco, l’asprezza della fredda forza burocratica che colpisce il comune buon senso. Verrebbe voglia di una solitudine fisica e spirituale, alla Schopenhauer: “I veri grandi spiriti costruiscono, come le aquile, i loro nidi a grandi altezze, nella solitudine”.
Aquila, dolce Aquila.
Tragico incidente lungo la salita di Santomanno, muore giovane centauro
Un tragico incidente è avvenuto nel pomeriggio di sabato 28 settembre intorno alle ore 18. Un giovane orvietano di...