Di Danilo Stefani
La magnifica storia de “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre, è in un voluminoso libro da leggere (o rileggere) proprio oggi; in quest’epoca di pazzi, orrore, e giostre politiche. Pubblicato tra il 1844 e il 1846 in tre tranches, ci parla di vendetta, perdizione, redenzione, cultura, amore e onestà.
Dumas scrive un libro eterno, un classico tra i più classici. L’edificante figura dell’abate e scienziato italiano Faria riassume in sé la Provvidenza. L’indicazione di una via del tesoro degli Spada non varrebbe nulla, senza l’ampia e incommensurabile cultura che il mite abate trasmette al casuale compagno di cella, e protagonista, Edmond Dantès. Tutto ha un senso, se tutto è gestito con il fondo di onestà ed equilibrio delle persone più semplici.
Calmatasi la calura climatica, divampa ora quella politica. Leggere i programmi politici è molto complicato (o semplice) perché nessuno tiene conto del “come”. Fare delle salutari pause con “Il conte di Montecristo”, finalmente con un po’ di ombra, e con i condizionatori spenti, è un consiglio.
D’altronde se Hemingway diceva che “nelle giornate di pioggia in Africa, leggere Simenon è l’ideale”, oggi quando ci sentiamo chiusi in uno spettrale Castello d’If, leggere le avventure di Edmond Dantès non può che temprare lo spirito.
Lo spirito della pioggia tangibile ed evocata, guardando ‘il mare dalla finestra di una cella’. Lo spirito di un’evasione per uno scopo ineluttabile, anche se poi si troverà un’immancabile nuova tempesta. Non parrebbe essere questo il senso supremo della vita? Evadere, evadere, evadere. Evadere e rifare la vita, per indefinite volte.