di Danilo Stefani
C’era una volta un messere chiamato Matteo Berrettini. Un ragazzone alto e robusto. Successe che alla vigilia del torneo di Wimbledon, il più importante del mondo allora conosciuto, e da disputarsi nel Regno d’Inghilterra, non stesse bene. Aveva contratto una piccola malattia, ma molto contagiosa. Per rispetto degli altri si ritirò dal torneo e si mise in isolamento. Gli inglesi, avendo la testa dura come l’elmo e trasmettendo contagi senza darsi contegno, tardavano a capacitarsi. Poteva, Berrettini, accettare la disputa e la malattia senza colpo ferire. Nessuna regola gli impediva di partecipare.
Ma Messer Berrettini scrisse chiaro: “Ho il cuore spezzato. Ma ho deciso che era importante tutelare la salute e la sicurezza dei miei avversari e di tutti gli altri coinvolti nel torneo”. Finito l’isolamento e ricomposto il cuore, il messere partecipò ad altri tornei sempre da uomo sano e scrupoloso.
Tornò in autunno nel suo Regno d’Italia; quello dei Draghi, dove vagavano altri Mattei famosi, indaffarati notte e giorno nell’arte sublime della politica. Venne accolto a braccia aperte, ad elmi levati e con tanto d’inchino da un numeroso popolo. Vincere, non giocando, compete solo a quei Cavalieri che rimangono ritti in sella senza sguainare la spada o la racchetta. Il gioco, lo sport, si chiama Tennis; ma questo è un dettaglio.
Lì dove si nascondeva il diavolo (nelle enunciazioni inglesi) l’esorcismo di Messer Berrettini funzionò. Vincere non è tutto: essere uomini di nobili gesta, sì.