di Valentino Filippetti
Domenica 12 giugno saremo chiamati a votare per 5 Referendum promossi da Salvini e dai Radicali. Io voterò e invito a votare No a tutti e cinque i quesiti. La materia è complessa perchè si tocca un nervo scoperto del paese. L’amministrazione della giustizia è in crisi al pari di tante altre situazioni. I tempi lunghi per i processi danneggiano sia chi ha ricevuto un torto sia chi alla fine risulta innocente.
Ma la vittoria dei Sì non risolverebbe nessuno di questi problemi e finirebbe per aggravarli. Inoltre la campagna abrogazionista finisce per avvalorare l’immagine di una magistratura principale responsabile della crisi. E non è cosi. E’ chiaro il tentativo di metterla sotto tutela da parte rilevante delle forze politiche. I mali della giustizia risiedono tutti nelle mancate riforme e nell’opera sistematica di smantellamento delle funzioni statali che viene portato avanti da tutti i governi da decenni.
La carenza di personale, i ritardi nelle innovazioni tecnologiche, la desertificazione del territorio hanno finito per avere gli stessi effetti devastanti che ci sono stati per la scuola, la sanità e la ricerca. Si cerca, come si fa spesso di ribaltare il tavolo e di scaricare sui lavoratori e sui cittadini le gravi responsabilità delle classi dirigenti. La bocciatura dei referendum significherebbe dare un segnale netto che è necessario cambiare rotta e dare finalmente al nostro Paese una classe dirigente seria, competente e rappresentativa della parte migliore dell’Italia. Vi allego delle schede che a mio avviso riassumono molto bene questo giudizio.
Quesito n. 1.
ABROGAZIONE DELLA LEGGE SEVERINO
Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi.
TESTO
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».
Il d.l. che porta la firma dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, in caso di condanna con sentenza definitiva per reati non colposi a pena superiore a due anni di reclusione.
Per gli amministratori regionali, per i sindaci o altri amministratori locali è prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per coloro che hanno riportato condanna definitiva per reati gravi (come la partecipazione ad associazioni mafiose, o altri fatti gravi) o per reati meno gravi quando si tratta di “delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio”.
Nei casi di sentenza di condanna non definitiva per i reati che prevedono l’incandidabilità, scatta la sospensione e la decadenza di diritto per gli amministratori locali.
In realtà si tratta di una disciplina che dà attuazione al principio costituzionale (art. 54) che esige che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Il decreto Severino è stato spesso criticato con riferimento alla sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano subito una condanna non definitiva per reati non gravi connessi ad eventuali abusi di potere.
Tuttavia il quesito referendario propone l’abrogazione tout court dell’intera normativa sulla incandidabilità e decadenza dei soggetti che ricoprono funzioni elettive.
Nel caso di vittoria dei sì, si applicherebbe la legislazione precedente in base alla quale l’interdizione dai pubblici uffici è una pena accessoria decisa eventualmente dal giudice.
Il quesito viene incontro alla diffusa insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità ma danneggia fortemente l’interesse dei cittadini alla correttezza dell’agire pubblico.
Quesito n. 2.
LIMITAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI
Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale
TESTO
«Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale) risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?».
I promotori del referendum lamentano che “ogni anno migliaia di innocenti vengono privati della libertà senza che abbiano commesso alcun reato”.
In realtà, secondo il codice di rito, perché possa essere emessa una misura cautelare nei confronti di una persona, devono sussistere due condizioni imprescindibili:
a) gravi indizi di colpevolezza;
b) un pericolo concreto ed attuale (di fuga, di inquinamento delle prove, di commissione di gravi delitti con uso delle armi, o di delitti di criminalità organizzata, ovvero di delitti della stessa specie).
La sussistenza di tali requisiti processuali che legittimano l’emanazione delle misure cautelari vengono verificati dalla magistratura mediante un duplice controllo, quello del GIP, che può respingere la richiesta del PM se ritiene non gravi gli indizi di colpevolezza, ovvero se ritiene che, pur in presenza di gravi indizi di colpevolezza non esiste una concreta pericolosità.
Il provvedimento del GIP che applica le misure coercitive, è poi soggetto ad un controllo immediato da parte del Tribunale del Riesame, denominato come Tribunale della Libertà.
A loro volta le decisioni del Tribunale del Riesame sono sempre soggette al ricorso presso la Corte di Cassazione.
E’ vero che sussiste la possibilità di un errore giudiziario, ma il presupposto da cui muovono i promotori è certamente falso.
Come ha osservato Domenico Gallo, “Esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’effetto del “sì” sarebbe quello di precludere la possibilità di applicare, nei confronti delle persone imputate di gravi reati, misure cautelari di alcun tipo, non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge o padre violento), oppure il divieto di avvicinamento (nei casi di atti persecutori) così come non sarebbero più possibili le misure interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori)”. In definitiva “Smantellando gli strumenti di contrasto alla criminalità, non si opera una riforma della giustizia, bensì una riforma contro l’amministrazione della giustizia, contro l’eguaglianza e i diritti delle persone”
La questione assume notevole rilievo nei casi di delitti seriali, dove la misura cautelare (detentiva o meno) ha una sua specifica utilità per interrompere una carriera criminosa (si pensi allo spaccio di droga) o una progressione criminosa (si pensi agli atti persecutori che, se non interrotti, possono trasmodare in atti di violenza letale come il femminicidio).
Abolire del tutto le misure cautelari coercitive nel caso di pericolo di reiterazione del reato, espone le vittime del reato ed i soggetti più deboli a gravi rischi e pericoli non altrimenti evitabili.
Il risultato finale di questa riforma non sarebbe quello di evitare che migliaia di innocenti vengano privati della libertà, ma di rendere meno incisiva l’azione di contrasto alla criminalità comune ed economico-finanziaria, ovvero di restringere il perimetro del controllo di legalità a fronte di comportamenti devianti e pericolosi per la società.
E’ opportuno rilevare che il quesito referendario travolge anche la possibilità di emettere delle misure cautelari interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, misure dirette ad esercitare opportune forme di contrasto nei reati di carattere patrimoniale o finanziario.
Quesito n. 3
SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi
TESTO
«Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura”; la legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera b) , della legge 25 luglio 2005, n. 150», nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante “Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera a) , della legge 25 luglio 2005, n. 150”, nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, in particolare dall’art. 2, comma 4 della legge 30 luglio 2007, n. 111 e dall’art. 3 -bis , comma 4, lettera b) del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n. 24, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni — 5 — 7-4-2022 GAZZETTA UFFICIALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Serie generale – n. 82 di legittimità di cui all’art. 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso art. 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’art. 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?»
Innanzi tutto si deve rilevare che il titolo risulta inappropriato poiché l’eventuale SI non comporterebbe la separazione delle carriere tra PM e giudice, che resterebbero legate alle identiche modalità di accesso alla magistratura mediante lo stesso concorso, la stessa scuola di formazione oltre all’appartenenza di tutti i magistrati al CSM come ora stabilito.
La reale separazione delle carriere richiederebbe infatti una modifica costituzionale per realizzare un sistema come quello previsto in Spagna o in Portogallo o in altri paesi europei.
Quesito n. 4
VALUTAZIONI DI PROFESSIONALITÀ
Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte.
TESTO
“Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei consigli giudiziari, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005, n. 150», risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art. 7, comma 1, lettera a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art. 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?
Il quarto quesito con un doppio intervento abrogativo sulla legge del 2006 punta a consentire la piena partecipazione degli avvocati alle decisioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari regionali.
Ad oggi, è previsto che gli avvocati possono partecipare solo nel dibattito sulle valutazioni di professionalità, senza peraltro avere alcun diritto di voto (nel caso dei Consigli giudiziari partecipano anche delegati di estrazione politica espressi dal Consiglio regionale).
I magistrati considerano pericolosa la normativa che risulterebbe dalla vittoria del sì in quanto gli avvocati potrebbero essere portatori di un conflitto di interessi nel valutare la professionalità di PM e giudici rispetto ai quali si trovano quotidianamente contrapposti nel processo.
Anche questo referendum incide in una materia trattata dalla riforma dell’ordinamento giudiziario proposta dal Ministro Cartabia, che prevede che gli avvocati potranno esprimere il loro voto nei Consigli giudiziari non a titolo personale, bensì riportando la valutazione che il consiglio territoriale degli avvocati ha eventualmente già espresso.
Quesito n. 5
RIFORMA DEL CSM
Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
TESTO
“Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’art. 23, né possono candidarsi a loro volta”?
L’ultimo quesito riguarda una questione abbastanza marginale in quanto propone di cancellare dalle norme che regolano l’elezione della componente togata nel Consiglio superiore della magistratura esclusivamente l’obbligo di accompagnare le candidature con almeno 25 firme di magistrati.
L’impatto di un’eventuale vittoria del sì sarebbe però assai limitato: consentire alle toghe di candidarsi anche senza dover cercare un appoggio di (solo) 25 presentatori non basterebbe a frenare le correnti.
Anche questo quesito va a toccare una materia che è adesso compresa negli emendamenti della ministra Cartabia arrivati alla Camera dei deputati: la nuova proposta di riforma prevede candidature individuali (senza necessità di alcuna firma a supporto) e soprattutto viene modificata la legge elettorale per il Csm.
(Attualmente non è ancora stato trovato un accordo tra il Ministro Cartabia in commissione Giustizia di Montecitorio sugli emendamenti in vista dell’approdo del testo in Aula fissato al 19 aprile, data che il presidente della Commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni giudica “irrealistica”).
NOTA SU INDICAZIONE DI ASTENSIONE
La norma che rendeva obbligatorio il voto è stata abrogata nel 1993 e prima di allora l’astensione era addirittura riportata nei certificati di buona condotta.
E’ rimasta intatta, invece, la disposizione di legge n. 352 del 1970 che vieta ai pubblici ufficiali di indurre all’astensione gli elettori o di condizionare il voto, richiamata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 1985.
Sentenza richiamata nella denuncia presentata dal segretario di Rifondazione comunista contro Renzi sul referendum delle trivelle.
Quello stesso articolo è riportato nelle istruzioni che vengono inviate dal Ministero ai componenti dei seggi elettorali per il voto.
In questo caso il richiamo al divieto di “induzione all’astensione” è rivolto direttamente agli scrutatori, ai segretari, ai presidenti e ai rappresentanti di partito presenti nei seggi elettorali, che svolgono un ruolo di pubblici ufficiali.
Sulla questione si è creata molta giurisprudenza, quando – con diverse sentenze – alcuni tribunali condannarono amministratori pubblici che avevano condizionato il voto.
L’articolo 98 del testo unico del 1957 viene commentato evidenziandone il senso di difesa del principio della libertà del voto: “E’ evidente che il legislatore ha inteso, con la norma in esame, impedire e punire lo svolgimento di un’attività politica svolta da colui che eserciti una pubblica funzione, o abbia la veste di ministro di culto o sia comunque investito di un potere pubblico, e ciò per evitare l’efficacia suggestiva e l’influenza persuasiva o cogente che possono derivare dall’attività in parola in materia di elezioni”.