di Chiara Biffarino – studentessa II Liceo Scientifico (Indirizzo Linguistico) “Ettore Majorana” – Orvieto
Il 27 gennaio viene celebrata in tutta Italia la Giornata della Memoria e in queste poche righe voglio raccontare quello che ho appreso dalla visione, fatta insieme a mio nonno, di un video girato da lui a casa di un combattente della seconda guerra mondiale che ha vissuto sulle proprie spalle l’orrore di quel periodo storico
Parlo di Giuseppe Frosoni di Castel Viscardo, 85 anni al momento dell’intervista, avvenuta nel 2006 e che è scomparso 3 anni dopo. Giuseppe, per tutti Peppe, nel video è molto emozionato nel ripercorrere tutti i tragici anni di combattente ed ogni tanto asciuga qualche lacrima che gli solca il viso.
Racconta che apparteneva alla Divisione Firenze, di stanza in Albania e che dall’ 8 settembre fino al 20 novembre 1943 rimase nascosto ed ospitato da una famiglia di ortodossi, in quanto il proclama emanato dai tedeschi prevedeva la fucilazione di tutti coloro che non si fossero presentati al comando.
Lui non si presentò, ma successivamente fu fatto prigioniero e tradotto al campo di smistamento di Bad Orb, in Germania, vicino a Worms Darmstad nella Renania. Da qui, camminando per 2 giorni e due notti, si avvicinò alla zona di Weimar per finire poi nel campo di concentramento di Buchenvald, dove, nelle vicinanze, si ricorda essere seppellita Mafalda di Savoia.
Arrivato al campo Peppe si rese subito conto della situazione. Colpi di fucile ovunque, tanto che lui stesso pensò subito tra sé:”Qui c’è la morte immediata”. Il suo primo pensiero fu quello del suicidio da realizzare buttandosi verso il reticolato dove l’elettricità a 3000 volts teneva lontani tutti i “malintenzionati”. Camminando nella via centrale per andare in una baracca notò cadaveri ovunque e un acre odore che si diffondeva nell’aria.
Una volta “sistemato” gli fu assegnato il numero di matricola 19646. Poichè conosceva alcune parole di tedesco, venne messo a capo di una piccola squadra di operai per la manutenzione del campo e così poteva vedere meglio quello che succedeva lì dentro. Raccontando i mesi di prigionia non può fare a meno di parlare del comandante Colonnello Koss, definendolo un “delinquente di prima categoria”. Altra citazione è per la moglie di quest’ultimo, Elise, capitano delle SS, più spietata del marito tanto da girare nel campo e sparare liberamente ai prigionieri per i motivi più diversi.
Peppe si ricorda che a Buchenwald erano impiantate 50 baracche di 40 metri x 20 all’interno delle quali erano stipati letti a castello a 5 piani che facevano si che in ognuna di queste ci fossero circa 2000 prigionieri. In una palazzina non lontana dalla sua baracca c’erano le camere a gas, i luoghi per le impiccagioni e le stanze delle torture. Arrivavano carri pieni di cadaveri ogni 5 minuti.
I forni crematori non si fermavano mai. A questi erano di guardia gli stessi prigionieri che, al termine del periodo stabilito, venivano essi stessi “infornati” per dare spazio ad altro personale. Frosoni ricorda che era vietato parlare con chiunque e non dovevano trapelare informazioni su quanto avveniva all’interno del campo. La vita quotidiana era indescrivibile; per sopravvivere Peppe mangiava il pane che trovava nei secchi dove i malati di tubercolosi di un vicino ospedale, buttavano i propri rifiuti. Il lavoro nel campo iniziava alle 5.00 della mattina e terminava alle 20.00.
Il giorno 13 luglio 1945 terminò questa sua prigionia allorchè le sentinelle aprirono i cancelli di Buchenwald gridando ai prigionieri :”Siete liberi, andatevene a casa!!!”. Una volta libero, riporta ancora Frosoni, camminò in aperta campagna per qualche giorno fino a quando incontrò le truppe americane. Un militare, figlio di italiani emigrati in America dall’Abruzzo, da sopra un carrarmato, parlando un italiano maccheronico, gli chiese se avesse avuto bisogno di un passaggio. Peppe aveva addosso solo mezza giacca, mezzi pantaloni e scarpe malandate.
Il soldato lo vestì di nuovo dandogli una tuta militare e poco dopo, nella città di Weimar, sfondò la saracinesca di un negozio tirando fuori una bicicletta e dicendogli:” Tu vai, che noi, se troviamo resistenza faremo quello che dobbiamo fare”. Frosoni prese la bici e pedalò per 2 giorni fino ad arrivare in Renania, ma le forze vennero meno e fu fatto prigioniero nuovamente prigioniero e inviato verso il confine sul lago di Costanza, a Ulm.
Da lì, il 25 luglio, fu inviato in treno in Italia fino a Milano e poi, con una tradotta militare carica di bombe americane arrivò fino alla stazione di Orte. Attese lì per 2 giorni, poichè gli americani non facevano salire nessuno sui treni diretti al nord. Dopo tanta attesa, il capostazione, mosso a compassione, e avendo saputo che veniva dalla Germania, gli regalò la giacca e il cappello da ferroviere e lo fece salire sulla motrice del treno permettendogli di arrivare alla Stazione di Allerona alle 3 della mattina.
Era il primo agosto 1945. Rivedendo luoghi conosciuti si incamminò verso Castel Viscardo dove arrivò dopo qualche ora fermandosi presso la fornace del Maresciallo Sugaroni e da lì aspettò i propri genitori e parenti che non avevano avuto più notizie del congiunto. Ma la storia del racconto iniziato per le vicende militari non finisce qui.
LA MANCATA PENSIONE DI GUERRA
Qualche giorno dopo il suo rientro a casa, si recò al Distretto militare per fare la “discriminazione”( presumibilmente un certificato specifico ma dal video non si evince chiaramente) e si trovò il foglio matricolare non aggiornato e quindi non veritiero per quanto riguardava tutte le vicende narrate prima.
A Frosoni era stata assegnata una pensioncina di guerra della sesta categoria che gli fu subito tolta e che non riuscì più a riprendere nonostante le malattie al fegato e le successive operazioni per cause di guerra. Ebbe anche la malaria tropicale ma nonostante ciò aveva, come dice lui, un cuore buono e per tale motivo non veniva riconosciuto malato. Fece diversi ricorsi, anche alla Corte dei Conti, ma non ci fu mai più nulla da fare.
Per lui, la causa del foglio matricolare non aggiornato da parte del Distretto militare era da ricercarsi nel fatto che, una volta partito dall’Albania, sarebbe dovuto morire nei campi di concentramento e pertanto non c’era la necessità di aggiornare la propria posizione. Dopo alcuni anni venne a sapere che la Germania assegnò dei contributi in Italia a determinate persone e nonostante avesse fatto anche lui domanda, non ottenne nulla. Addirittura la Commissione di Ginevra alla quale si era appellato rispose che lo stesso non risultava essere stato prigioniero nel campo di concentramento di Buchenwald.
Nel 1970 fece di nuovo ricorso per ottenere questa benedetta pensione di guerra alla Commissione presieduta dal Generale Carboni a Roma. La stessa riconobbe la causa di guerra e concesse la pensione per validità di quattro anni più gli arretrati. Molto soddisfatto tornò a casa e, una volta chiamato in Comune per ritirare il libretto, ringraziò l’allora impiegato e lo invitò al bar per un brindisi con alcuni compaesani. Purtroppo questa incredibile e dolorosa storia non finisce ancora qui.
Il giorno dopo arrivò infatti una cartolina a casa del Frosoni che lo invitava nuovamente a sottoporsi ad un controllo di visita superiore in seguito alla quale le autorità competenti tolsero nuovamente la tanta sospirata pensione di guerra.
Da quel giorno Peppe si scoraggiò così tanto che, fino alla sua morte, non fece altro che raccontare la sua storia incredibile a tutti coloro che lo andarono a trovare. Questa è una delle tante testimonianze che ci sono sugli orrori delle guerre e dell’Olocausto in particolare. La nostra generazione, per motivi anagrafici, non ha avuto la possibilità di avere contatti diretti con i protagonisti di queste vicende.
Per questo è importantissimo conservare e tramandare tutti i contributi affinché anche chi verrà dopo possa prendere coscienza di ciò che è stato per far sì che non accada
MAI PIU’
PLUS JAMAIS
NEVER AGAIN
NIE WIEDER









