Questa è la cronaca più o meno integrale di un viaggio non desiderato, anzi detestato, iniziato il pomeriggio di lunedì 20 settembre intorno alle 17.30 e che, ahimé, ancora dura. Come fossimo stati lanciati da un razzo, l’esito positivo del tampone molecolare di uno di noi, ci ha proiettato in un’orbita lontana, seppure fisicamente non abbiamo mai lasciato l’appartamento di Orvieto centro. Siamo in tre su questa navicella che non ha pulsanti, né computer avveniristici e francamente non avevamo affatto voglia di intraprendere questo viaggio. Manco per niente! Eppure da quel preciso istante ci sentiamo come stranieri alla Terra, estranei alle cose che accadono, le finestre sono divenute gli oblò da cui sbirciare la vita che pullula sul pianeta là sotto.
Il calendario è fermo al 20 settembre, chissà fino a quando lo sarà. I primi giorni sono stati scanditi dalla paura, inutile negarlo, chiunque c’è passato sa benissimo di cosa parlo. Il Covid non sarà una sentenza inappellabile ma comunque è una sentenza dura. Dopo quasi due anni di pandemia, con tutto quello che è accaduto e si è letto e visto in TV, il sentimento dominante che non ti abbandona neanche un istante, è solo la paura. Il Covid colpisce alle spalle, pur con tutte le precauzioni possibili, pure dentro la scuola, un luogo ritenuto sicuro da primi ministri, ministri e sottosegretari. Come sulle mura della fortezza Bastiani, restiamo in attesa, sperando che all’orizzonte i tartari non si presentino sotto forma di sintomi importanti.
Elisa non sta bene e si vede. Paura per sé, per i propri cari, oltre ai sintomi oramai evidenti, sono una miscela esplosiva che muta radicalmente la percezione delle cose, il modo di vederle, rimescola tutto; a questo punto l’unica cosa che veramente conta è quella di poter tornare sulla Terra il prima possibile. Il Covid è attesa spasmodica che nulla accada, è mettersi continuamente in ascolto del proprio corpo, è il rito da celebrarsi almeno quattro volte al giorno, del termometro e del saturimetro.
Le raccomandazioni della Asl sembrano di prammatica, così come gli altri tamponi da farsi. La sincronia del tempo salta, l’attesa è l’unico obiettivo da perseguire. Attendere, altro non si può fare. Il Covid è attesa. Ma anche un viaggio fuori dal mondo e non c’è bisogno di finire per forza in ospedale per rendersene conto. Sono calmo, resto calmo e questo, per chi mi conosce un poco, è strano. Per me è una sorpresa, una piacevole sorpresa. Mi arrabbio e non poco solo col comando dei vigili urbani di Orvieto: abbiamo le auto parcheggiate all’ex caserma Piave e come tutti i primi venerdì del mese, vanno spostate dallo spazio riservato ai residenti per consentire la pulizia del piazzale. Dopo due telefonate nelle quali spiego a chiare lettere la situazione, mi viene risposto che se la mattina successiva le auto sono dove non devono essere, scatterà la multa ed anzi, può scapparci pure la rimozione forzata con il carro attrezzi. Tento un’ultima volta di spiegare ma l’interlocutore appare irremovibile: “Mi spiace signore, questo è il regolamento, buona giornata.”.
Forse sopravviveremo alla pandemia ma moriremo tutti di burocrazia e politicamente corretto, a volte mi chiedo se non avesse realmente ragione Metternich a lasciare che l’Italia restasse solo un’espressione geografica. Vaccini o meno, il Covid è una brutta bestia, su questo non ci piove. Abbiamo la fortuna di avere chi pensa a noi e non smetterò mai di ringraziare chi ci sta dando una mano. Immagino che le persone sole o quelle che non hanno parenti e amici nei paraggi, possano trovarsi in serie difficoltà in questi casi.
Il Covid non è solo un bollettino giornaliero, sapere che le terapie intensive non sono sature o che non muoiono più centinaia di persone al giorno: il Covid ti ruba un pezzo di vita, te la consuma nell’attesa, ti lascia fermo e impotente anche se non hai sintomi gravi. Con il passare dei giorni i sintomi si alleviano, restano solo tanta stanchezza fisica e un’alterazione importante del gusto e dell’olfatto. Nel frattempo continuiamo a guardare il mondo da un oblò, come cantava Gianni Togni più o meno quando andavo in quarta elementare, in attesa, insieme al resto dell’equipaggio (e che equipaggio!), che qualcuno da Terra ci dica che è tutto a posto e che possiamo iniziare le manovre di rientro. – Gabriele Marcheggiani –