Ad Orvieto è diventato famoso per il bar pasticceria che ha portato per anni il suo nome, ma dietro all’insegna “Scarponi” c’è la storia di un uomo, Attilio Scarponi che si è conquistato con grandi sacrifici e determinazione il proprio successo. La sua vita è rievocata da lui stesso nel libro autobiografico “Una montagna di zucchero e fiele” in distribuzione nazionale con Intermedia Edizioni a partire da lunedi 6 settembre. Il contenuto è il diario di una vita, dal 1940 anno della sua nascita, alla chiusura della mia attività il 30 giugno 2015. Ecco come l’autore rievoca nell’introduzione la sua esperienza.
“Mi chiamo Attilio. Attilio Scarponi. Sono nato il 20 settembre 1940, da umili e poverissimi genitori, in una casetta di due stanze; una al piano terra e l’altra sopra, alla quale si accedeva con una scala di legno attraverso una botola tagliata nel soffitto. Una casetta tirata su tra querce e ulivi, nelle campagne dell’orvietano.
A cinque anni mi fu insegnato a fare cose adeguate alla mia età, come badare alle galline che non sconfinassero dallo spazio consentito, procurare l’erba per gli animali da cortile, dondolare una rudimentale culla quando mio fratello piangeva, raccogliere spighe di grano rimaste nei campi mietuti. Il tutto camminando a piedi scalzi da maggio a settembre. Avevo quasi sette anni quando mio padre mi affidò il compito di riempire d’acqua un tino di legno da venticinque quintali. L’acqua andavo a prenderla alla sorgente, distante da casa circa duecento metri, con un secchiello di latta da cinque litri. Alla fine ho calcolato di aver trasportato in tre mesi tra i 100 e i 110 quintali d’acqua facendo circa 1.200 viaggi, per un totale di 4.800 chilometri, oltre cinque chilometri al giorno.
Pochi giorni dopo iniziai le elementari. Terminata la quinta fui mandato in seminario a Orvieto. Con quattromila lire al mese mi facevano studiare e mi davano da mangiare e da dormire. Non mi trovai bene. Resistetti tre anni poi, in una notte di luna piena, scappai dalla porta del campo sportivo e tornando a casa. Non volli più studiare. A quattordici anni fui costretto a procurarmi da vivere. Iniziai andando nei boschi a raccogliere carbonella, che rivendevo a circa 20 lire a chilo. Quando non c’era più carbonella, mi massacravo mani e braccia tra gli spini dei ginepri per raccogliere le bacche nere che vendevo a 400, 500 lire a chilo.
A quindici anni, da ottobre a marzo, andavo a tagliare il bosco con mio padre. Tagliare il bosco era molto faticoso, a pranzo mangiavo quello che la sera prima mia madre aveva potuto preparare: pane e patate, fagioli o pastasciutta. Tutta roba fredda. La sera, mi mettevo a dormire in un letto che al posto del materasso aveva un saccone pieno di foglie secche di granturco. La domenica servivo messa nella chiesa accanto alla scuola. Appena pranzato dovevo sempre andare a procurare erba per gli animali. Decisi di scappare anche da quella vita dura. Con l’aiuto di un parente trovai lavoro in una falegnameria a Orvieto; mi pagavano pochissimo e mi facevano schiattare di fatica. Da lì andai in una pasticceria; migliorai poco, ma il lavoro mi piaceva.
A diciassette anni, ospite di una zia, andai a lavorare a Roma in una grande pasticceria; lì mi trovavo bene ma guadagnavo sempre poco. La sera, per non spendere 15 lire per il biglietto dell’autobus, mi facevo più di cinque chilometri a piedi. Strada facendo raccoglievo le cicche di sigarette. Ero sempre disperato senza una lira. Il giorno pranzavo con un po’ di scarti che di nascosto mangiavo in pasticceria: quando uscivo dal lavoro, comperavo dieci lire di caldarroste (5 o 6 castagne) e dieci lire di lupini. Per nove mesi cenai con mezzo litro di latte inzuppandoci una ciriola da 100 grammi. Ero sempre in cerca di guadagnare e imparare di più, per questo spesso cambiavo posto. Nel giro di pochi anni, da Roma mi trasferii a Palermo, poi Milano, Bologna, Anzio.
Mi sposai, feci il soldato, avemmo un figlio. Tornai a Roma, poi rientrai con loro di nuovo a Orvieto andando a lavorare nella stessa pasticceria dove avevo iniziato come apprendista. Lì rimasi cinque anni, poi mi misi in proprio. Aprii un bel bar pasticceria, gelateria e cioccolateria, dando lavoro a undici persone. Sono rimasto lì, lavorando con moglie e figli, per oltre quarant’anni facendo una piccola fortuna”.