Orvietano, classe 1982. Emilio Giacomo Berrocal, in arte Boika Esteban ha dato alle stampe, per Effigi, “Diario di un’Insurrezione. Black Lives Matter dall’Italia”, un un libro che racconta, dall’Italia, l’estate del 2020, attraversata, in piena pandemia, dalle proteste globali del movimento Black Lives Matter. Una corposa appendice accompagna le pagine diaristiche con la scrittura saggistica.
Un diario che diventa quasi un’autobiografia intellettuale di venti anni di studi antropologici, dalla Sapienza di Roma alla Durham University, e una auto-etno-analisi, dalla ricerca sulle statue coloniali di Panamá allo studio dell’antichità dimenticata dell’Etruria, passando per le incursioni in campo artistico, musicale e attoriale, per continuare l’antropologia con altri mezzi.
L’autore, antropologo e performer, con il nome di Boika Esteban, anticipava l’ondata di sguardo critico alle statue e nomenclature coloniali e schiaviste delle città, registratasi nell’arco dell’estate 2020, con un video rap del 2010, in cui, in vista del 150enario dell’Unità d’Italia che si sarebbe celebrato l’anno dopo, chiedeva di cambiare nome a Piazza dei 500 della Stazione Termini di Roma in Piazza Andrea Costa e Ulisse Barbieri: gli unici che si opposero, con argomenti importanti, alla campagna di martirizzazione dei cinquecento caduti di Dogali, nel 1887, all’inizio della campagna coloniale della Sinistra Storica in Africa Orientale. Tentativo di decolonizzazione urbana che continuava con un altro video nel 2012 a Trafalgar Square, facendolo parte integrante del suo progetto dottorale di ricerca etnografica nell’hip-hop di Londra e strategia di campo per decolonizzare il rapporto studioso-studiato dell’antropologia.
Dalla quarta di copertina:
Ogni rapper si è cimentato con l’arte del freestyle, dell’improvvisazione a braccio, e sa cosa significa perdersi dentro il flow, il flusso, quando le rime vengono da sé e le parole sgorgano senza bisogno che le si pensi. Sono momenti in cui anche il più esperto degli improvvisatori non può far altro che perdere il controllo e abbandonarsi alla furia armoniosa delle ripide, fin quando, poco o molto più avanti, tornerà a mettere piede sulla terraferma, rinvigorito oppure totalmente impaurito. Sono momenti onnipotenti, per quanto effimeri, insurrezionali, in cui la rivoluzione appare possibile. Questo libro è esattamente il frutto di un siffatto meccanismo, venuto alla luce in quelle settimane, annuncianti l’estate del 2020, in cui anche in Italia sembrava imminente che si potesse sconfiggere il razzismo una volta per tutte. I Can’t Breathe, pronunciato da un morente George Floyd, sotto il ginocchio del poliziotto bianco con le mani in tasca, noncurante di essere ripreso da un telefonino, sembrava, d’un tratto, offrire la risposta planetaria alla causa della crisi respiratoria che il pipistrello del covid aveva portato come enigma da risolvere ai cittadini del mondo nei terribili mesi precedenti. L’autore, un antropologo del rap, assecondava le proprie correnti emotive in lunghi gettiti di parole notturne che, come freestyles, lo conducevano in territori energetici pericolosi. Il risultato è un manifesto politico sul “sacro” e una teoria sull’umano al “Tempo della Fine”.