di Atonio Rossetti
Il bell’articolo di C. Lattanzi – Il paradosso orvietano: quell’enorme ricchezza privata che non si trasforma in sviluppo e qualche idea per uscire vivi dal Covid, su Orvietosì del 07.01.21 – ha, tra gli altri pregi, quello di aver riacceso un focus sulla questione dell’elevato livello dei depositi bancari dell’orvietano, aspetto già discusso ampiamente, credo per la prima volta, negli ultimi numeri del Bollettino economico del Centro Studi, la cui pubblicazione sarebbe ragionevole riprendere. Intanto una premessa, a rigore l’entità dei depositi bancari nulla ha a che vedere con il volume del risparmio: quelli dipendono dalle decisioni della banca centrale circa l’immissione di liquidità e dalle decisioni di utilizzo di tale liquidità da parte delle banche commerciali, nonché dall’avversione al rischio dei detentori di fondi; al contrario, il risparmio dipende dal reddito e dalle decisioni di consumo; per capire il punto è sufficiente pensare a cosa succede quando con un atto di consumo compriamo una camicia: diminuisce il saldo del nostro conto corrente e aumenta quello del venditore, in aggregato i depositi rimangono immutati. Per cui, per congetturare circa l’eccesso di risparmio non si dovrebbe osservare lo stock dei depositi ma solo la parte attribuibile all’operatore che consuma, cioè le famiglie. In alternativa, la dinamica dei depositi va vista insieme a quella dei prestiti: se la seconda, come nell’orvietano, è significativamente più contenuta, si può ragionevolmente ritenere che vi sia un eccesso di risparmio. Convincenti ma non esaustive appaiono le spiegazioni addotte dai contributi apparti nei giorni scorsi (ad esempio, l’incidenza del pendolariato e quella della classe dei rentier), che sebbene probabilmente giochino un ruolo esso è meno rilevante di quello attribuibile alla contenuta crescita demografica, aspetto pure richiamato nei vari articoli.
In questo mio contributo, vorrei fare un focus sulla relazione tra demografia e economia per mostrare che è questa la variabile chiave che induce un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti. Intuitivamente, la tesi è che il risparmio si può tradurre in capitale solo se questo può essere messo in produzione in maniera redditiva tramite il reperimento di adeguata mano d’opera; accettando che ogni sistema operi con un certo livello di disoccupazione strutturale, l’offerta di mano d’opera proverrà necessariamente dalla crescita demografica. Questo angolo visuale non è certo nuovo in teoria economica, riviene dai lavori di Harrod e Domar del 1939, poi ripresi da numerosi altri studi, per esempio in quello di Solow del 1956. In estrema sintesi, il paradigma in parola mira a descrivere la situazione della crescita economica in un contesto di equilibrio tra risparmio (S) e investimento desiderato (I); Il volume di S per unità di capitale (C) viene detto “tasso di crescita garantito” (gw) e descrive la dinamica che avrebbe il sistema se tutto il risparmio generato fosse investito, circostanza che però non necessariamente si verifica. Ma perché avviene questo “sciupio” di risparmio? Cioè, perché il motore dell’economia può andare a un numero di giri significativamente inferiore al potenziale? Come anticipato, una delle cause più importanti è la demografia: mettiamo che la tecnica di produzione richieda un certo rapporto capitale/lavoro, se la crescita della forza lavoro idonea (l’aggettivo è rilevante: può darsi che vi sia contemporaneamente disoccupazione e carenza di mano d’opera qualificata per le nuove tecnologie) è contenuta, la messa in produzione di ulteriori dosi di capitale implica rendimenti decrescenti, cioè vi è troppo capitale per addetto e conseguentemente la sua produttività sarà bassa. Questo spiega un livello di investimento inferiore al potenziale. Si osservi che questa rappresentazione non è in grado di descrivere se il problema del contenuto livello dei prestiti sia un problema di carenza di domanda degli stessi (da parte degli imprenditori) o di offerta (da parte del sistema creditizio): infatti una scarsa redditività degli investimenti deprime sia la domanda (contenuti profitti attesi) che l’offerta (elevato rischio di default) del credito. Il tasso di incremento della forza lavoro è detto “saggio di crescita naturale”.
Siamo pervenuti alla tesi di Harrod-Domar, semplice ma non banale, che un’equilibrata dinamica economica richiede che il tasso garantito, indotto dalla capacità di generare risparmio, coincida con il saggio naturale, determinato dalla demografia. Il punto è che i due tassi saranno prossimi solo per un accidente del tutto fortuito, Harrod definì questo equilibrio precario come “equilibrio del filo del rasoio”: nelle economie mature, in generale quelle dell’occidente, avremo che il livello di reddito è tale che l’eccedenza rispetto ai consumi, il risparmio, è in grado di consentire un’accumulazione del capitale molto elevata, ma il tasso naturale sarà in generale più contenuto e “frenerà” il sistema; in tal caso S sarà maggiore dell’investimento desiderato. Al contrario, nei paesi in via di sviluppo il livello del reddito non consente livelli di risparmio significativi, al contrario la crescita demografia induce un livello di tasso naturale elevato, in tal caso gli investimenti desiderati saranno in eccesso rispetto al risparmio disponibile. In conclusione, la crescita sarà vincolata dal minore tra tasso garantito e tasso naturale. Per cui, ad esempio se il risparmio consentisse una crescita degli investimenti del 2% ma la demografia avesse una dinamica nulla, la crescita economica sarà nulla. In virtù del “filo del rasoio”, nei paesi sviluppati avremo un eccesso di risparmio, in quelli in via di sviluppo un deficit: le economie avanzate saranno soggette a stagnazione, quelle in via di sviluppo a inflazione. Il caso dell’economia dell’orvietano, pertanto, presenta i tratti tipici di un habitat con bassa crescita demografica, pertanto con un eccesso di risparmio: entrambi tali elementi conducono alla contenuta crescita economica.
In questa rappresentazione, necessariamente semplificata, un ruolo rilevante è giocato dalla produttività, essa mitiga il vincolo alla crescita posto dal tasso naturale: se un lavoratore in virtù del progresso tecnico può fare la produzione che prima facevano due addetti, è come se la forza lavoro disponibile per i nuovi investimenti raddoppiasse. Per cui la relazione, semplificata, finale che descrive l’equilibrio nello sviluppo richiede che la somma del tasso naturale (demografia) e della crescita della produttività (progresso tecnico) uguagli il tasso garantito (cioè l’attitudine del sistema a generare risparmio impiegabile). Con questa chiave di lettera, l’eccesso di liquidità, la stasi dell’accumulazione del capitale, la crisi demografica dell’orvietano e la contenuta crescita della produttività, appiano come aspetti strettamente connessi, il nesso di casualità andando, prioritariamente, dalla demografia all’economia.
Alcune osservazioni a margine. In primo luogo, l’evidenza della stasi demografica dell’orvietano (o più genericamente italiana) e della contenuta crescita della produttività, spiega ampiamente la non soddisfacente crescita economica empiricamente osservabile. In secondo luogo, le politiche keynesiane di sostegno della domanda e quelle monetarie di contenuti tassi di interesse hanno poco impatto in contesti di crescita demografica non soddisfacente. Una possibile soluzione alla “maledizione dell’equilibrio del filo del rasoio” sarebbe possibile se gli input di produzione fossero utilizzati, entro certi limiti, accentuando l’impiego di quelli maggiormente disponibili: ad esempio, nel caso di una crescita demografica contenuta si potrà utilizzare maggiormente capitale in luogo del lavoro; questa è la soluzione proposta da Solow, ma implica un contenuto rendimento degli investimenti che sono posti in essere per quantità rilevanti, molto oltre la dimensione tecnicamente ottima. Gli economisti neokeynesiani (per esempio Kaldor) vedono invece un meccanismo di aggiustamento nella distribuzione del reddito: la domanda di lavoratori qualificati fa aumentare i salari a danno dei profitti facendo flettere il volume dei risparmi in eccesso.
Da ultimo, che fare? Si può partire da una semplice considerazione: i sistemi aperti possono giovarsi dei flussi migratori di lavoratori idonei per mitigare il freno di una crescita demografica fiacca, ma per facilitarli è necessario porre in essere una politica tale da contenere il costo delle abitazioni, favorire gli spostamenti, creare infrastrutture. Insomma, bisogna contrastare i rendimenti decrescenti dati dal costo del suolo e della manodopera, questa accentua la sua scarsità per via dell’altro costo delle abitazioni che frena i trasferimenti tra aree geografiche. Fondamentale rimane creare economie di rete, cioè di connessione tra aziende operanti nel territorio in grado di generare produttività dall’imparare l’uno dall’altro: questi effetti di propagazione sono assai rilevanti per la crescita e per la produttività, come dimostrato anche empiricamente da vari studi.