Domenica 22 novembre il Rotaract Club di Orvieto è stato lieto di intervistare Ambra Laurenzi in diretta facebook, vista e considerata l’attuale emergenza sanitaria . L’evento è stato fatto per aderire al service distrettuale “There for woman” che accende i riflettori su un argomento sempre più diffuso ovvero la violenza sulle donne, la cui giornata commemorativa è fissata al 25 del mese corrente.
Ambra Laurenzi è la presidente del comitato internazionale di Ravensbruk, è consigliera di ANED (associazione nazionale ex deportati) ed emerita professoressa di fotografia allo Ied (istituto europeo di design). Grazie alla sua preziosa collaborazione il Club ha potuto fondere due tematiche importanti quali la protezione delle donne che hanno subito violenza e la giornata del ricordo delle vittime della Shoa.
Molto spesso sentiamo parlare dei campi di concentramento, ma raramente veniamo a conoscenza del fatto che a Ravensbruck era appeso un fiocco rosa. Infatti era un campo prettamente femminile nel quale le donne venivano fatte lavorare duramente persino nelle fabbriche di produzione bellica, erano ferite nella loro femminilità e il loro corpo veniva dato in pasto ai soldati e agli altri deportati.
Ambra Laurenzi è figlia e nipote di deportate, è quella seconda generazione sulla quale pesa una psicologia traviata e ineffabile. E’ cresciuta in un clima pesante, fatto di silenzi e di ricordi terribili. Alla luce degli eventi ha deciso di approfondire di sua sponte la storia di tutte quelle donne che hanno subito la deportazione, per questo motivo ha realizzato un toccante videodocumentario dal titolo “Le Rose di Ravensbruck- storie di deportate italiane” che è stato visionato in occasione di domenica.
Quello che traspare è subito un senso di appartenenza e di dolore comune, le testimonianza raccolte, le lettere che rimangono ci fanno sentire sulla pelle il brivido della paura unito allo schifo di una femminilità perduta. Ambra pone l’accento su quello che non si sapeva, su quelle magagne che l’informazione storica non ha portato a galla. L’intervista articolata in più domande, ha voluto precisare la parola violenza e le sue declinazioni intese soprattutto come trauma psicologico per tutte coloro che sono sopravvissute. Le donne che ce l’hanno fatta, una volta tornate a casa non parlavano mai e poi mai di quello che avevano dovuto sopportare. La violenza accumulata si era tramutata in sordo silenzio, in somatizzazione passiva del dolore, celando così drammatiche pagine di vissuto generazionale.
Ci vuole coraggio per parlare, ci vuole orgoglio e freddezza per ammettere di aver perduto tutto, dai capelli, al ciclo mestruale, al pudore. Noi che siamo una generazione 2.0 che non ha avuto traumi del genere, non possiamo neppure lontanamente immaginare cosa significhi essere donne deportate e poi ancora figli di quest’ultime. Quello che però abbiamo il dovere di fare è senza dubbio ricordare e non permettere mai più a nessuno che si verifichino dei tali soprusi in nome di tutte le donne che proprio come le rose al gelo dell’inverno hanno perso tutti i loro petali. (Clarissa Bellocci)