di Mirabilia Orvieto
Nell’ascoltare il capitolo 13 del vangelo di Marco, con cui inizia il tempo di Avvento, non si può fare a meno di provare un po’ di angoscia. L’autore però voleva trasmettere ben altro, anche se le sue parole non sono facili da decifrare. Ne è consapevole lo stesso evangelista che proprio al versetto 14, quello che non compare nel testo liturgico, scrive: “che il lettore comprenda”.
Dopo aver parlato della fine di Gerusalemme e della fine di tutti i poteri che schiacciano e umiliano l’uomo sulla terra, Cristo annuncia con una parabola la fine dei suoi stessi discepoli. L’intenzione non era certo quella di esaltare l’ora terribile della morte, che prima o poi giungerà per tutti, ma di rivelare il senso della loro vita. Nel racconto si parla di un uomo che parte per un viaggio e lascia la casa ai suoi servi con il compito di prendersi cura di essa.
Il servo fedele, Masaccio
Nel mondo antico una casa era abitata non solo da una famiglia, ma da un intero ‘clan’ formato da molte persone. Ai servi era stato dunque affidato il compito di provvedere alla vita e al benessere di tutti (uomini, donne, figli e nipoti), mentre il portiere, citato anch’esso nella parabola, doveva sorvegliare la porta della casa in quanto da lui dipendeva la sicurezza di coloro che stavano dentro.
Volete essere miei discepoli? Bene, dice il vangelo, allora imitate quei servi e “Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento”, quando cioè il padrone farà ritorno. La parola chiave è proprio quel ‘vegliate’, ripetuto ben tre volte. Vegliare o vigilare significa prendersi cura della vira degli altri. In altre parole: “Guardate bene a come vivete”, se occuparvi solo di voi stessi o se fare attenzione a coloro che vi stanno accanto.
Qui Gesù non sta pensando a una religione fondata sull’altruismo dove bisogna acquistarsi dei meriti davanti a Dio prodigandosi, di tanto in tanto, nel fare del bene al prossimo. Con questa parabola veniva annunciato, in quel tempo, qualcosa di veramente sorprendente: da ora in poi non conterà più ciò che l’uomo farà nei confronti di Dio, ma piuttosto come si comporterà nei confronti degli uomini, proprio come farebbe un buon servo. Servire significa infatti dilatare la propria vita, farla crescere, diventando gli uni responsabili della vita degli altri, e non una volta ogni tanto ma sempre.
C’è di più. Quando il padrone affida ai servi la casa trasmette loro anche la sua stessa autorità. Che significa? Che servire non ha niente a che vedere con l’atto umiliante dello schiavo che è obbligato a fare le cose ordinate dal padrone: servire è il gesto che conferisce all’uomo la dignità più alta perché non c’è cosa più grande che dare vita, comunicare vita per il benessere di tutti. E questa parola, nel Vangelo, non è più rivolta solo a Israele.
L’esempio della parabola va oltre il limite di un popolo, di una nazione o di una religione: la casa è immagine di tutta l’umanità e i servi sono allora coloro che rimangono svegli, e cioè attivi nel costruire una ‘nuova umanità’, il Regno dei cieli appunto, dove ciascuno non sarà più l’uno estraneo all’altro, ma l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, l’uno dentro l’altro. Chi dunque vuole seguire il vangelo non deve più ‘servire Dio’ ma servire ogni uomo, poiché in Cristo Dio si è fatto servo dell’umanità.
Così quando il padrone di casa tornerà all’improvviso, e cioè quando non si avrà più il tempo per cambiare atteggiamento, non dovrà trovare i servi addormentati come purtroppo avvenne con i discepoli nella notte del Getsemani, nel momento culminante della vita di Cristo.
Coloro che saranno ‘svegli’ non avranno nulla da temere perché saranno attenti a cosa li circonda, a chi è nelle loro vicinanze, preoccupandosi di ciò che nella vita è essenziale a discapito di tutto il resto; e anche se saranno incerti sul futuro si affideranno al Padre che è nei cieli il quale, nel momento decisivo, verrà in aiuto perché li troverà a condividere con gli altri i loro fardelli.