di Franco Raimondo Barbabella
Sicché per la quarta volta l’asta per la vendita dell’ex Ospedale “Santa Maria della Stella” e dell’ex Pediatria è andata deserta. Spero ora che ci sia stancati di interpellare un mercato che evidentemente per qualche ragione non risponde e la si smetta di insistere con questa logica della vendita/svendita che ormai si può interpretare solo come cieca strategia di impoverimento. I segnali ci sono tutti: occorre un radicale cambio di rotta.
Se potessimo assimilare il trattamento del nostro patrimonio pubblico al trattamento che la civiltà classica riservava ai culti religiosi, dovremmo parlare del reato di empietà, che scattava appunto per grave trascuratezza in quel determinato luogo e in quel determinato tempo. Ma il fatto che siamo qui ed ora, civiltà occidentale contemporanea laica e garantista che non mette in croce nessuno per comportamenti poco commendevoli, non vuol dire che bisogna passare tutto in cavalleria.
In effetti, la vicenda dell’ex ospedale, come per altri versi quella dell’ex Piave, ci indica con potente evidenza ciò che non si dovrebbe fare, e per converso ciò che invece sarebbe necessario fare, per un uso produttivo del patrimonio pubblico in quest’epoca storica. Mai come oggi esso rappresenta, a mio parere, l’elemento strategico per la progettazione dello sviluppo delle città, soprattutto di quelle storiche. Per cui tutto si deve fare tranne vendere alla cieca, senza sapere perché, cioè per liberarsene come se invece che una risorsa fosse un peso o, nel caso peggiore, per l’illusione che favorire una speculazione sia la via maestra per attrarre investimenti. Lascio volentieri ai conversi il compito di commentare.
Ovviamente nessuno si fissa con l’uso tradizionale degli immobili: si sa che l’uso cambia con il cambiare della realtà. Nei due casi in questione, ex ospedale ed ex Piave, era inevitabile che in un caso si dovesse trasferire il vecchio ospedale in uno nuovo e che, nell’altro, si arrivasse alla dismissione della grande caserma, con la conseguenza che i due edifici ad un certo punto sarebbero rimasti vuoti.
Bisognava quindi pensarci per tempo e, quando ci si fosse pensato (e ci si è pensato), bisognava favorire le soluzioni invece che mettersi di traverso. Ma soprattutto, e prima di ogni altra cosa, bisognava maturare un’idea di città, del suo futuro, del suo ruolo territoriale e della sua possibile proiezione nazionale e internazionale. E’ proprio ciò che non si è fatto negli ultimi trent’anni, anzi, è ciò che si è fatto al contrario, interrompendo e sgretolando l’idea elaborata negli anni ottanta e pervicacemente evitando che se ne costruisse una diversa, magari aggiornando quella esistente.
Lo aveva già evidenziato a suo tempo la decisione di sostituire la SMEF con la Guardia di Finanza, smontando appunto un pezzo del progetto generale. Lì si era pensato di collocare tutte le scuole superiori, insieme ad una significativa presenza universitaria nel quadro di una grande operazione di trasformazione in cui entrava in gioco anche il carcere, che doveva essere trasferito all’esterno, cosicché potesse prendere forma compiuta l’idea di una città della cultura, dello studio e del turismo con tutti gli annessi. Era il “Progetto Orvieto 2”, prosecuzione e completamento del “Progetto Orvieto” elaborato all’inizio degli anni ottanta in connessione con il risanamento della rupe.
Quel nuovo progetto, che ampliava la strategia della modernizzazione del centro storico sottraendo una sua parte rilevante alla logica di sussistenza, non fu nemmeno preso in considerazione. Di fatto era già iniziato lo smontaggio del progetto originario che, come penso sia noto, puntava su uno sviluppo stabile e ben organizzato a valere sul complesso delle risorse storico-artistico-ambientali connesse con la valorizzazione turistica e le produzioni di qualità.
Da allora ha preso avvio l’idea che la politica non deve occuparsi di cose di lungo periodo, impegnative e con effetti necessariamente dilazionati, secondo il principio che “è meglio un uovo oggi che la gallina domani”. Perciò niente visione, non si può perdere tempo con ciò che non è immediatamente spendibile. Meglio il tiè e dà qua!
Il risultato? Quello che si vede: né l’uovo né la gallina. Niente e anzi peggio, il degrado, il fermo di attività, la rincorsa dei problemi, l’affanno a liberarsi purchessia di un patrimonio che da risorsa viene trasformato in problema. Ed ecco servite sul piatto le tre idee un po’ bislacche e ovviamente fallimentari (nell’ordine: valorizzazione del patrimonio affidata all’Agenzia del Demanio, sede dell’Ufficio europeo dei brevetti, Campus delle università americane) per il riuso dell’ex Piave, che perciò sta lì nel degrado più triste. Ecco poi le già dette quattro aste andate deserte per la vendita/svendita dell’ex ospedale e dell’ex pediatria. Ed ecco, forse per la continuità stringente del fascino delle soluzioni sbrigative, la svendita di Montiolo. Sul resto meglio il silenzio.
Non si dica che non c’era alternativa perché c’era eccome, e d’altronde ci sarebbe anche oggi, solo che ci si decidesse a cambiare rotta, sposando finalmente una logica di riprogettazione urbana a larga scala con visione prospettica.
Per l’ex Piave, tanto per non far finta di niente, c’è ancora, sta lì depositato in Comune, il Business Plan di RPO Spa, che delineava una strategia di riuso inteso come potenziamento e sviluppo delle potenzialità del centro storico con visione ben più che locale. Certo, sarebbe un piano da aggiornare, ma l’impianto meriterebbe di essere preso di nuovo seriamente in considerazione perché fa perno sulle vocazioni e le risorse della città e tende a dotarla delle strutture di cui ha bisogno per essere competitiva sul mercato dell’offerta culturale e turistica.
Per l’ex ospedale ci sono le tre idee su cui si è discusso per anni e su cui però non si è avuto il coraggio di decidere sia perché si è abbandonata ogni visione progettuale, un’idea guida della trasformazione urbana, sia perché ci si è indeboliti nel rapporto interistituzionale tra Comune e Regione. Si tratta di tre idee diverse, ma tutte dotate di forte impatto prospettico e quindi meritevoli di analisi comparata nel contesto di una visione interconnessa dell’uso produttivo del grande patrimonio urbano sia pubblico che privato:
1. un albergo moderno di grande livello internazionale coordinato con le destinazioni dell’ex Piave;
2. un centro mostre e di iniziative culturali in connessione con una seria programmazione delle attività congressuali del Palazzo del Popolo;
3. un centro specializzato nella cura e nella promozione della salute per la terza età.
Io penso che ormai sia giunto il tempo di riprendere le fila di un discorso da troppo tempo interrotto. Dovremmo considerare conclusa la lunga stagione fatta, più che di discussioni, di liti politiche, che ci hanno portato alla crisi di prospettive e alla nuova emarginazione che stiamo vivendo spesso con rabbia e ancor più spesso, e peggio, con rassegnazione. Per sviluppare di conseguenza, e finalmente, un confronto progettuale che, seppure aspro, sia volto però a costruire futuro contrastando stanchezza e sfiducia.
Ma basta con le aste di svendita. Riprogettiamo piuttosto la città, diamoci una strategia. E sulla base di questa decidiamo le modalità di soluzione che riterremo le più adeguate. Dopo la pandemia verrà il dopo e, se non ci arriviamo con una visione e con idee progettualmente coerenti, perderemo non un’occasione soltanto, ma la possibilità di essere territorio che sa ritagliarsi un ruolo e un futuro.