La commessa abbassa la saracinesca dello storico bar del centro allo scoccare esatto delle diciotto. Il rumore di metallo che sbatte stasera sembra un lamento, come il latrato di un cane alla luna, nelle stradine deserte del borgo. La luce del giorno è ormai un ricordo, solo voltando lo sguardo verso occidente, per poco ancora, sembra di vedere baluginare un tenue biancore che va fondendosi con il buio delle colline intorno alla rupe, dove luci rare rivelano esistenze.
Nelle vie della città antica, svuotate dalle regole di un gioco a cui non avremmo mai voluto giocare, regna l’assenza. L’assenza non è mai nulla, è sempre mancanza di qualcosa, di qualcuno e le luci arancioni dei lampioni rischiarano i vicoli acciottolati carichi di una nostalgia che punge l’anima.
Una signora con il cane al guinzaglio si affretta nella stradina che sale stretta mentre due giovani innamorati si sussurrano parole incomprensibili nell’intimità della loro stagione più bella. Pochi passi ancora e sotto la Torre del Moro, nel crocevia più animato della città alta, una folata di vento freddo ricorda che siamo in autunno avanzato. L’assenza non è vuoto, è nostalgia. I giorni del Covid sono carichi di nubi e di dubbi, di ansie e di paure: per il presente e il futuro dell’economia grande e piccola, per le aule scolastiche vuote da mesi e chissà per quanto ancora, per un mondo che non ci è mai sembrato così fragile e impotente come adesso. Non di un viaggio in capo al mondo, non di cose avvertiamo l’assenza: di una strada affollata, del vociare della gente e di un saluto come si deve. (G.M)
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