di Mirabilia Orvieto
Seconda Parte – (prima parte)
Nel Patrimonio artistico italiano è racchiusa la ‘biografia spirituale’ della nostra nazione. Così adottare un’opera o un monumento significa ritrovare la propria identità, riscoprire il messaggio vivo ed attuale che ancora porta con sé, significa entrare materialmente e spiritualmente nel fluire della storia, della nostra storia!
E’ quanto accade quando si visita con calma e curiosità un luogo particolarmente intenso come la Cappella del Corporale nel Duomo di Orvieto. Spesso però entrando si guardano di sfuggita quei cicli pittorici come fossero delle ‘opere mute’. E pensare che gli affreschi di Ugolino di Prete Ilario sono la più completa trattazione della dottrina eucaristica mai realizzata nella storia dell’arte, il luogo dove è possibile contemplare ciò che ha fatto grande il medioevo, l’epoca di miracoli e leggende, di santi e cavalieri, di mistificatori e demoni, della conquista della Terra Santa e del Paradiso; ma anche l’epoca in cui i sacerdoti venivano insigniti del massimo potere sulla terra, quello cioè di trasformare nella messa la materia fisica in Dio.
L’Eucarestia era l’ultimo simbolo del mondo cristiano, il cuore di una ideologia universale comune a tutti gli europei. Il miracolo di Bolsena, legato negli affreschi al Papa Urbano IV, alla Bolla Transiturus e all’istituzione della festa del Corpus Domini, era la dimostrazione inconfutabile del potere divino elargito agli uomini.
La battaglia tra cristiani e saraceni
Per questo nella Cappella sono rappresentate le storie che esaltano il potere dell’ostia su tutti i miscredenti e oppositori della fede cristiana: ebrei, musulmani, eretici e profanatori. Sulla parete di sinistra appaiono i miracoli eucaristici a scopo apologetico, come la storia del bambino ebreo che dopo essersi comunicato viene gettato dal padre in una fornace dalla quale esce incolume, o della conversione in massa degli infedeli, avvenuta durante l’epica battaglia tra cristiani e saraceni, dove tra le mani del sacerdote si rende visibile il mistero della transustanziazione. L’icona dei grandi ideali del medioevo, come il coraggio, la purezza, la forza e l’onore, sono invece esaltati nell’immagine del cavaliere armato di spada e di arco che avanza regale sopra le teste dei visitatori. Sul suo bianco destriero l’eroe, che ha lo sguardo fisso in Cristo e nell’ostia, lascia alle sue spalle la città che era il luogo delle tentazioni del mondo e, sottomettendo con il dominio di sé le seduzioni della carne, simboleggiate da una donna completamente nuda, scaglia la sua freccia contro un demonio infilzandolo mortalmente alla gola.
Il miracolo del pescatore
Ma l’eucarestia non era solo per gli eroi cristiani. Per i semplici fedeli, con poca istruzione e virtù, la Chiesa soccorreva la loro fragile fede con la certezza che “se i sensi vengono meno, la fede basta per rassicurare un cuore sincero” (Bolla Transiturus, 1264). E’ il caso del miracolo del pescatore dubbioso, il quale dà da mangiare l’ostia a un pesce che gliela restituisce intatta dopo tre anni, o della popolana di Ostina che portata a casa l’eucarestia la mette sul fuoco per provarne la veridicità. Credere nell’eucarestia significava credere nel trionfo del bene sul male, della verità sulla menzogna, della salvezza sulla perdizione.
A riaccendere poi nei cuori la nostalgia per la vera fede, in una chiesa profondamente in crisi, sono i miracoli ‘mistici’ come quello di Ugo di san Vittore. La scena non era destinata a convincere gli increduli, piuttosto a dimostrare la capacità dei santi di penetrare profondamente l’essenza sovrannaturale dell’eucarestia, definita nel XII secolo come un ‘vaso’ in cui è riversata la realtà spirituale della grazia.
Il Santo teologo, filosofo e vescovo, è raffigurato in punto di morte mentre chiede ai confratelli di comunicarsi; per paura che egli potesse profanare il sacramento a causa della sua repulsione al cibo, i religiosi gli offrono con l’inganno un’ostia non consacrata che viene subito respinta da Ugo.
Morte di Ugo di San Vittore
I monaci gli porgono allora il vero corpo di Cristo e in quel momento, rapito in adorazione, il Santo muore: la sua anima viene accolta in cielo insieme all’ostia benedetta. Egli, avendo radicato fermamente e “custodito diligentemente nelle viscere del suo cuore” il mistero eucaristico, seppe riconoscere con i ‘sensi dello spirito’, e non del corpo, la natura divina dell’eucarestia definita da sant’Agostino il ‘verbo visibile’. Se Dio si era allontanato dal mondo a causa delle dottrine manichee, abbracciate dalla setta dei Catari, che separavano l’umano dal divino, la materia dallo spirito, la Cappella del Corporale celebra un Dio che si riavvicina al mondo attraverso la presenza di Cristo nella realtà materiale del pane e del vino, realtà che avrebbe aiutato e confortato la vita di ogni vivente fino alla fine dei suoi giorni.
Il buon ladrone ha infatti l’aureola sul capo che è reclinato verso il Signore morente, immagine che rievoca la creazione di Adamo nei bassorilievi della facciata del duomo, mentre il suo volto è somigliante a quello di Cristo; questo particolare racchiude con genialità espressiva tutta la teologia, la fede e la spiritualità di quel tempo a significare che l’uomo pentito può ritrovare in se stesso l’immagine di Dio solo se muore con Cristo, e cioè in comunione con la sua Anima.
Il reliquiario del miracolo di Bolsena, Ugolino di Vieri, 1338
Durante la celebrazione della messa, le immagini della Cappella dovevano perciò proiettare la comunità cristiana nel cuore del mistero della Redenzione racchiuso nel Corporale di Bolsena, mistero che pervade misticamente tutto lo spazio della Cappella e il cui programma iconografico si ispirava alle scene rappresentate nel reliquiario.
Il reliquiario di Ugolino di Vieri, rassomigliante alla facciata del duomo, non doveva costituire semplicemente una preziosa teca, di oro, argento e smalti in cui custodire il lino insanguinato, ma rappresentare una catechesi sul significato del sacrificio di Cristo che dal tabernacolo si irradiasse in tutto il mondo. Qui vengono raffigurati, come fossero un unico racconto, la storia del prodigio eucaristico e quella della Passione di Cristo. La vicenda del miracolo di Bolsena doveva rievocare gli ultimi atti della vita di Gesù celebrati nella Settimana Santa: quando il vescovo Giacomo portò da Bolsena l’ostia e il sacro corporale, era il Signore stesso che faceva il suo ingresso nella ‘città santa’ di Orvieto, la nuova Gerusalemme, per essere nuovamente innalzato non più sul monte Golgota ma sopra l’antica Rupe, davanti a tutto il popolo orvietano, che quel giorno si radunò “con lacrime liete e letizia nel pianto” in contemplazione del miracolo eucaristico. Come rivivendo una seconda Passione del Signore, uomini, donne e bambini, insieme alle autorità ecclesiastiche, ebbero anche la gioia di udire dalla bocca del Papa, durante la prima festa del Corpus Domini, le stesse parole che il Signore trasmise ai discepoli nell’ultima cena:“Se qualcuno avrà mangiato di questo pane vivrà in eterno, perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda”.
La deposizione di Gesù, particolare di Giuseppe d’Arimatea
La perfetta compenetrazione dell’impianto affreschi-altare-reliquiario doveva riaffermare più dei sermoni la verità del miracolo della ‘transustanziazione’, sancita nel 1215 dal IV Concilio Laterano e confermata poi con la Bolla Transiturus di papa Urbano IV. Quel sangue impresso nel Corporale sopra l’altare era veramente il sangue di Cristo che gli angeli raccolsero nel calice eucaristico al momento della crocifissione, sangue che il sacerdote teneva devotamente tra le mani durante la consacrazione e che Giuseppe d’Arimatea conservò alla morte di Gesù.
Nella scena della Deposizione, sul lato sinistro dell’altare, Ugolino di Prete Ilario ritrae il discepolo di Gesù con un vasetto circolare tra le mani, mentre sembra ricevere l’ispirazione di raccogliere il sangue del Salvatore; la sua forma richiama quella del contenitore custodito proprio all’interno del reliquiario, dove si trovano ancora i frammenti del pane del miracolo. Il particolare di Giuseppe d’Arimatea non poteva non rievocare la leggenda del Santo Graal che, già presente nell’immaginario collettivo del popolo cristiano, entrava a far parte dell’arte liturgica confermando tutto il potere salvifico racchiuso nelle specie eucaristiche.
La leggenda narra del cavaliere Perceval, uno degli eroi del poema, che durante la ricerca del Graal si fermò in un monastero per la messa. Dietro l’officiante il cavaliere vide, come in un affresco, la figura di un vecchio canuto che disteso su un letto, al momento dell’elevazione dell’ostia, pregava dicendo: “Caro dolce Padre, non dimenticatevi della salvezza che mi avete promesso”. Poi invece di coricarsi rimase in preghiera con le mani tese verso il suo Creatore.
La ricerca del Graal