di Silvia Fringuello
Durante l’inferno del Covid19 “…mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita “, ed iniziai di nuovo a scrivere ed immaginare un cambiamento progressivo, ad un futuro migliore .
Per uno sviluppo sostenibile a misura d’uomo, è necessario innanzitutto effettuare un bilancio degli aspetti negativi e positivi ante Covid19, che caratterizzano il nostro sistema sociale ed economico e depennare le voci che hanno contribuito alla perdita di valori, cultura, bellezza e ricchezza.
Nei giorni di quarantena, in ambito lavorativo e non solo, ho personalmente assistito a due fenomeni contrapposti di egual misura: una manifestazione di solidarietà che non avrei mai immaginato e lo sciacallaggio più becero, inaspettato, passibile anche di denuncia. Da qui scaturisce una mia riflessione, non mi ci soffermavo più dall’infanzia talmente sia scontata e data per acquisita. Si tratta della distinzione tra bene e male, giustizia ed ingiustizia, maligno e benefico e rispolverando la distinzione tra questi concetti, fondamentali per la vita di una cristiana, sono arrivata ad una conclusione semplice e mirata: se il male fosse individuato e riconosciuto in quanto tale, in ogni ambito sociale ed economico, potremmo avere la soluzione a tutti i nostri problemi ed un futuro all’insegna della giustizia sociale. E’ talmente elementare questa cernita, quanto complicatissima è la sua applicazione, è utopia.
La confusione valoriale generata ad arte dai potenti del mondo per soddisfare il loro benessere, con delle politiche economiche liberiste volte ad un consumo esasperato, non necessario per soddisfare i bisogni reali, materiali ed immateriali e la negazione della formazione culturale e religiosa sostituita dall’insegnamento alla propria realizzazione, diretta “all’io” in quanto individuo e non persona, hanno fatto in modo che su questo pianeta tutto è reso possibile. E’ l’era del relativismo.
Il Relativismo è una concezione filosofica che nega l’esistenza di verità assolute, o mette criticamente in discussione la possibilità di giungere a una loro definizione assoluta e definitiva. Personalmente non voglio credere che l’uomo sia arrivato a negare ogni valore, a distruggere ogni carattere identitario o le proprie tradizioni, ma certamente ha modificato le sue verità, adeguandole costantemente all’interesse personale senza avere alla base una scala valoriale solida, senza morale.
Con questa situazione a livello globale l’unica via per un futuro migliore è tornare a predicare, seminare, attraverso mezzi di comunicazioni moderni, modelli di vita ed impianti economici che s’ispirano ai valori del cristianesimo e di tutte quelle religioni e filosofie di pensiero che valorizzano la persona. Considerare quindi la persona come parte essenziale di un’intera comunità ed educandola nuovamente a vivere in comunione. La cooperazione è l’unico strumento che può far realizzare la soddisfazione della singola persona attraverso il raggiungimento dello scopo stabilito da una collettività, è un dispositivo che si adegua alle filosofie di vita moderne ed ottiene risultati positivi con l’esercizio di sani valori.
Insieme si può! In comunione si può!
L’economia della regione Umbria si sostiene dall’indotto generato dalle istituzioni/aziende Pubbliche, dalla filiera TAC (Turismo Ambiente Cultura) e dalle pensioni. Il dato demografico risulta drammatico: l’età media dei residenti è di circa 47 anni. Negli ultimi 20 anni la produzione delle aziende e la loro nascita sono conseguenti al programma economico regionale TAC, che si fonda sulla valutazione attenta di uno studio antropologico relativo al tessuto sociale imprenditoriale umbro, la cui stesura è stata inoltre condizionata dalle linee guida impartite dalla comunità europea per ottenere più risorse possibili. Il Covid19 ha evidenziato le criticità del nostro sistema economico che già dava segni di forte debolezza. La sopravvivenza delle imprese della regione è di fatto molto vincolata al flusso turistico. Agricoltura, ambiente, commercio, artigianato, manifatturiero, edilizia e la piccola e media industria, hanno ragione di esistere perché abbiamo il turismo che consuma e genera indotto. L’economia di una regione non può dipendere da due fonti di approvvigionamento, il Pubblico ed il turismo, se viene meno una delle due componenti crolla il sistema. Il Covid19 ha bloccato il flusso turistico, le conseguenze negative saranno imminenti.
Per sviluppare un nuovo “stile economico”, rispettoso della persona, dobbiamo per prima cosa avere una visione olistica della nostra regione, vista come un unicum e non come somma delle parti di cui è composta. Dalle acciaierie “Terni amore e acciaio”, alle lenticchie di Castelluccio di Norcia, dal pensionato allo studente dell’Università di Perugia, dal Duomo di Orvieto agli Ex Seccatoi di Burri a Città di Castello e così via, tutto è collegato, è una trama di singole reti che realizzano l’insieme.
La concezione del nuovo stile deve partire dal basso, dal popolo, non può essere replicato. Un modello di un altro territorio, la riscoperta delle proprie radici e dell’identità è il preludio del processo. Occorre avviare nuove pratiche produttive che ci rendano il più possibile economicamente autonomi e prediligere i consumi dei nostri prodotti Made in Umbria e Made in Italy. Non è mia intenzione proporre politiche “sovraniste” e nemmeno “protezioniste” ma politiche economiche circolari, che si espandano anche all’estero e consentano un’equa redistribuzione della ricchezza.
Alcuni settori, come l’agricoltura, nella nostra regione privilegiano colture legate esclusivamente alla domanda del mercato globale e non locale, come la viticoltura, la vinificazione e il tabacco rendono il paesaggio magnifico, ma la ricchezza che producono è destinata a pochi. La varietà delle colture, come l’ortofrutta, i cereali, i legumi e l’allevamento di animali, consentirebbero di arricchire più operatori del settore, offrire più posti di lavoro, i prezzi al dettaglio sarebbero più convenienti e renderebbero la regione più autonoma nel soddisfare il mercato interno offrendo anche più qualità dei prodotti.
L’artigianato, in particolare quello tipico, è quasi scomparso dallo scenario economico della regione. Il patrono di Orvieto è San Giuseppe, non a caso la città fino al secolo scorso era popolata di falegnami. Lungi da me l’idea di mischiare il Sacro con il profano, cerco solo di leggere il territorio con una visione olistica e di immaginare una pianificazione del bene comune condivisa da tutta la collettività, comprese le istituzioni ecclesiastiche. Solo con la cooperazione di tutte le parti sociali si raggiungono obiettivi comuni, ottenendo la ridistribuzione equa della ricchezza. Anni fa nella città di Orvieto il giorno di San Giuseppe veniva organizzata la festa dei falegnami, in molti partecipavano, giungevano anche dalle regioni limitrofe. Immaginiamo di creare un marchio di prodotto legato alla storia di San Giuseppe patrono anche dei falegnami, se ben impostato potrebbe dar vita alla filiera del legno, dall’impresa boschiva, all’artigiano, alla piccola/grande impresa (infissi), dal piccolo commerciante alla grande distribuzione. Il progetto potrebbe avere una risonanza regionale e nazionale come lo è San Francesco d’Assisi per la filiera turistica religiosa/outdoor/enogastronomica. Tutto l’artigianato deve essere recuperato, la bellezza e l’autenticità del nostro prodotto è unica al mondo, non riproducibile, perché lavorata a mano dagli umbri.
L’industria alimentare è tutt’ora un’importante colonna dell’economia, negli anni però ha subito grandi perdite di posti di lavoro, di utili e di prestigio a livello nazionale ed internazionale. Buitoni, Colussi, Perugina, Ponte, Federici, sono state una grande ricchezza ma l’avvento delle multinazionali, ha spalmato la produzione e l’acquisto delle materie prime nei luoghi del mondo dove si può realizzare il massimo profitto sostenendo costi bassissimi. Riscattare questa grande tradizione umbra è possibile, con l’aiuto di ciò che è rimasto delle banche locali ed i cittadini, tramite ad esempio un’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto), gli umbri tornerebbero ad essere padroni del loro stesso lavoro, l’indotto della filiera alimentare e gli utili ricadrebbero in loco. I campi di grano colorerebbero di giallo nuovamente il paesaggio, i mulini ritornerebbero a funzionare, la realizzazione degli imballaggi attiverebbe una nuova produzione di filiera ed il potenziamento del settore della logistica.
Il mio ufficio è ubicato in una piccolissima porzione di un grandissimo stabilimento costruito negli anni 60, l’80 % della sua superficie è attualmente vuota, all’epoca era occupato dalla Lanerossi- Lebole, fino ai primi anni ’80, dove vi hanno lavorato oltre 300 donne. Erano operaie di alta qualità professionale, una decina di loro oggi lavorano fuori regione per PRADA ed altre firme importanti. Questa professionalità purtroppo è in via di estinzione, non vi è stato il ricambio generazionale, non ci sono più imprenditori intenzionati ad investire in Italia sul tessile, non vi sono più sarte. La ripresa di questo settore per la regione è strategica, consentirebbe di realizzare un valore aggiunto che un tempo era trainante per la nostra economia. Per il suo rilancio il brand Made in Italy è la soluzione, ad una condizione però, ossia che tutti gli attori del comparto tornino ad essere competitivi sul mercato, con il sostegno anche della finanza agevolata. Tutti hanno il diritto di vestirsi Made in Italy, di acquistare abbigliamento prodotto in Italia a prezzi accessibili, alla portata di un reddito medio pro-capite di circa 1.400 euro.
New Economy, forse è più attuale chiamarla Old Economy. Si dice che questo è il secolo della seconda rivoluzione industriale, l’innovazione tecnologica corre talmente veloce che in brevissimo tempo la produzione che ne scaturisce è già superata dalla creazione di nuova tecnologia. La crescita è frenetica, fuori dalla dimensione dell’umano. E’ il settore trainante dell’economia mondiale, è il presente ed il futuro, la digitalizzazione e la robotica hanno raggiunto livelli di evoluzione inenarrabili, fino a mettere in discussione l’etica e le prestazioni fisiche ed intellettuali naturali dell’uomo. Filosofi, medici, religiosi ed intellettuali oggi si interrogano sul post umano, su quale sia il confine della tecnologia applicata sul corpo e sul cervello dell’uomo fino a modificarne i pensieri. I luoghi dove si sviluppa questa attività di solito rinchiudono i lavoratori a gruppi isolati, appartati, come a voler riprodurre un mondo virtuale, un’atmosfera surreale, dove la concentrazione si esprime al massimo e la dissociazione dalla realtà prende forma, sono “luoghi non luoghi”. La naturale sede di un “pensatoio del futuro” dovrebbe essere un luogo che avvicina l’uomo alla natura, alla pace, alla sua storia, che procuri emozioni e sentimenti per tenere in mente ben presente, di essere per prima cosa una persona. Gli antichi borghi sono la sede ideale, la loro vocazione turistica può essere estesa alla produzione, possono trasformarsi in una “fabbrica del futuro” e tornare ad essere centri vitali, fulcri di sviluppo economico e sociale. La disposizione geografica, le barriere naturali dei borghi antichi, non possono essere considerati un problema per questa tipologia di attività, è fondamentale però un investimento infrastrutturale, tra cui la fibra ottica, della quale orami siamo finalmente dotati. Per realizzare anche questa idea progettuale devo essere coinvolti tutti gli attori sociali ed istituzionali di un territorio e superare la classica visione di sviluppo sostenibile che di solito è programmata a breve-medio termine su modelli economici già collaudati. La sfida è quella di unire la storia dei padri con il futuro dei figli, per custodire la propria identità e far nascere una nuova cultura sociale fondata sulla qualità ed il rispetto delle vite, passate, presenti e future.
Per attivare un processo di profondo cambiamento sociale ed economico, la formazione è indispensabile. Questo periodo di stand by economico dovrebbe essere utilizzato per formare, plasmare nuove forme pensiero, che abbiano un orientamento divergente rispetto agli attuali esempi di sviluppo basati sul consumismo esasperato. La conoscenza e la riscoperta dei bisogni primari e secondari della persona è uno dei tanti argomenti su cui sviluppare un’idea diversa di economia e di ricchezza, quest’ultima intesa non solo in termini di valore materiale ma anche immateriale. Un modello economico è giusto quando è inclusivo e non dimentica i deboli, quando rispetta le differenze, quando produce e ridistribuisce ricchezza equamente, accresce il livello culturale di un popolo, risultando perciò equo e solidale. Il benessere di una Nazione, come sosteneva Robert Kennedy, deve essere misurata sulla felicità delle persone, questa è la ricchezza compiuta. Una piattaforma formativa sperimentale si potrebbe sviluppare sull’attuale stato di emergenza Covid19. L’esperienza del lockdown ha imposto alle persone regole basate sullo stato di necessità e costretto quindi ad analizzare i bisogni primari e secondari, dei quali alcuni non ne conoscevano la differenza, in molti la avevano dimenticata o addirittura, le generazioni più giovani, mai conosciuta.
Gli strumenti per praticare la partecipazione dal basso sono molteplici, di esperienze dirette è già possibile reperirle sul nostro territorio, la più rilevante è il contratto del fiume Paglia. In quell’occasione la partecipazione fu estesa a tutti gli operatori economici, alle associazioni ed alla rappresentanza sindacale e politica, ci furono pochissimi incontri ma molto efficaci che diedero vita al progetto. La cooperativa di comunità è attualmente il dispositivo più inclusivo, vi possono prendere parte sia i singoli cittadini, che le associazioni e le imprese, lo scopo è mutualistico, ossia generare un’equa ricchezza per tutta la collettività con la progettazione e la gestione del bene comune. La sua natura giuridica, è quella di un’impresa sociale che permette di essere immediatamente operativa. In Italia già molte cooperative di comunità hanno ottenuto risultati straordinari, sono riuscite a ridistribuire ricchezza alle popolazioni residenti con la gestione di beni demaniali o di altri servizi come la fornitura dell’energia elettrica e l’erogazione dell’acqua pubblica. Nell’orvietano è presente una neo-cooperativa di comunità, il suo scopo è valorizzare un bene comune, il demanio regionale sito nel comune di Allerona. L’esperienza è appena iniziata, la difficoltà principale che sta riscontrando è costituita dalla barriera culturale sollevata dalla maggior parte dei residenti. L’individualismo al quale siamo stati avvezzi negli ultimi decenni ostacola il compimento della mutualità, quindi l’essenza della natura giuridica della cooperativa, ma non bisogna demordere, il tempo ed in particolare il post-Covid19 aiuterà a far capire il valore del cooperazione.
Anche il Marchio territoriale consente di coinvolgere tutte le attività economiche e la collettività, la Regione Umbria dovrebbe farsi carico della sua realizzazione. Un marchio territoriale può raccogliere quell’idea di sviluppo sostenibile basata sulla visione olistica di un territorio. Dentro il marchio il “Cuore Verde d’Italia” potrebbero cimentarsi stili economici e di vita innovativi che richiamano il carattere identitario della regione e praticano uno sviluppo sostenibile. I marchi già esistenti ed i nuovi che praticheranno azioni ed economie finalizzate al bene comune, alla ridistribuzione della ricchezza, alla crescita culturale ed al rispetto di tutte le differenze e dell’ambiente, andrebbero a dare origine e a svilupparne poi contenuti al marchio regionale inteso come una rete delle reti sociali ed economiche.
Un cambiamento radicale del nostro modello sociale ed economico può avverarsi solo se alla base delle idee è ben radicato il concetto di bene comune, accompagnato da valori sani e saldi. Lo sviluppo economico è al servizio della persona e del bene comune e non può essere il contrario, deve rispettare la giustizia sociale, il principio di solidarietà umana e quello di sussidiarietà. La via nuova, quella del cambiamento, è già stata tracciata conseguentemente ai disastri sociali che ha prodotto il capitalismo esasperato, è semplice da percorrere, il popolo da subito dovrebbe mettersi in cammino. Il nuovo modello si potrebbe chiamare “Economia di Comunione”, il quale significato può essere rintracciato nella seguente asserzione, appartenente a Papa Francesco: “Il ‘no’ ad un’economia che uccide, diventi un ‘sì’ ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”.