ORVIETO – Con l’intervista a Matteo Tonelli, commercialista stimato ed ex presidente del Centro Studi, questo giornale ha inteso dare il suo contributo al dibattito sulla drammatica situazione economica del territorio orvietano e sulle soluzioni da adottare per uscire dalla crisi post – Covid19.
E’ con piacere che riceviamo il contributo di Antonio Rossetti, ex vice presidente del CSCO fino allo scorso anno, da sempre legato al nostro territorio; come giornale siamo convinti che un dibattito serio e ragionato sul futuro di Orvieto e dei comuni che attorno ad esso gravitano, debba essere avviato senza indugi in sedi propriamente dedicate. Si assiste invece, purtroppo, ad uno spettacolo poco edificante e soprattutto affatto utile, che dagli spalti dei social network divide le diverse tifoserie come in uno stadio di calcio.
La situazione sul fronte economico e occupazionale è senza precedenti ovunque, motivo per cui occorre uscire dagli schemi rigidi del passato e praticare nuove strade in questa terra incognita. Ogni contributo che immagini la città del 2030 piuttosto che rinfacciare all’altra parte quanto avvenuto nel recente passato, è ben accetto”.
di Antonio Rossetti
In “Così parlò Zarathustra” e ancor prima ne “La gaia scienza”, Nietzsche avanza la sua famosa tesi che, stante che le combinazioni in natura sono numerosissime ma in numero finito, ogni evento è destinato a ripetersi. L’argomentazione, che risale al pensiero greco, ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e sarebbe, secondo taluni (per esempio Heidegger nel monumentale “Nietzsche”), un modo per riportare il fluire del divenire all’immutabilità dell’essere. Ma cosa c’entra il ritorno dell’uguale con l’economia dell’orvietano?
C’entra, perché sul dibattito, ovviamente comune a tutto l’Occidente, di come impostare la gestione della fuoriuscita dal Coronavirus, di frequente si sottolinea – in maniera quasi sempre apodittica – che i settori su cui spingere dovranno essere quelli e solo quelli della tradizione: nel caso dell’orvietano immagino si voglia dire la filiera della eno-gastronomia e quella del turismo.
Ovviamente, in una economia di mercato in generale gli strumenti della politica spesso non sono conclusivi, a fortiori quelli delle amministrazioni pubbliche locali. In ogni caso, la tesi merita, secondo me, di essere approfondita. Più specificatamente, in questo scritto punto a cercare di chiarire quali siano:
a) i presupposti economici alla base di tale impostazione,
b) le eventuali controindicazioni
c) come, credo, si dovrebbe impostare la discussione su tale argomento.
Cominciamo dal punto a). L’idea che si debba puntare sui settori dove si eccelle non è una scoperta recente del pensiero economico, essa venne sostenuta da David Ricardo nei suoi “Principi di economia politica e dell’imposta” (1817) ed è passata in letteratura come la tesi “dei vantaggi comparati”, in base alla quale ci si dovrebbe specializzare nei settori, dove appunto si possiede, rispetto ai competitori, un “vantaggio” (per tecnologia, tradizione, risorse ect…), anziché cercare di produrre i beni che altri riescono a porre in essere con una superiore efficienza. Ricardo stava costruendo le basi ideologiche della nascente potenza commerciale inglese anche come paese esportatore, scardinando le tesi dei paesi protezionistici; nel famoso esempio di Ricardo si analizzano le produzioni delle stoffe in Inghilterra e quella del vino in Portogallo, cioè ancora una volta, come adesso, manifattura e agricoltura.
Vi sono controindicazioni all’impostazione ricardiana, che appare molto “ragionevole”, del vantaggio comparato? Sì, vi sono delle controindicazioni: veniamo al punto b). In primo luogo, in tal modo i paesi finiscono per abbandonare settori che possono essere ritenuti strategici, se su essi non hanno allo stato un vantaggio comparato: si pensi all’energia, alla sanità, alla difesa.
In secondo luogo, non è detto che quello che non si riesce a produrre con efficienza e efficacia oggi non lo si possa fare domani, cioè non vi sarebbero solo economie di scala e di scopo – legate alla dimensione del volume di produzione e alla competenza acquisita nella fabbricazione di prodotti similari in un certo anno – ma anche economie cosiddette dinamiche, cioè che dipendono da quanto si è prodotto cumulativamente negli ultimi anni e che implicano un processo di “apprendimento tramite il fare” che mitiga la rilevanze dell’inziale (s)vantaggio comparato. In terzo luogo, non si può escludere che i beni prodotti da alcuni settori, che al momento non siano un’eccellenza, possano entrare nella produzione del settore dove si detiene un vantaggio comparato accentuandolo. Da ultimo, ma non in senso di importanza, può darsi che i settori al momento non di punta, abbiano caratteristiche tali da indurre maggiori ricadute positive sul processo di crescita, rispetto a quelli su cui si ha un “vantaggio comparato”.
I primi due punti mi sembrano già di per sé molto chiari, oserei dire ovvi. Qualche considerazione in più si può fare sugli altri due. Per fissare le idee, ipotizzo – semplificando al massimo e riprendendo il celebre esempio di Ricardo – che vi siano due settori, l’agricoltura e la manifattura; ciò posto, in merito al terzo punto, si pensi a cosa possa fare la manifattura per migliorare l’agricoltura, nell’età della digitalizzazione, o addirittura, spingendosi più in là, si ragioni in termini di miglioramento generale dell’efficienza tramite l’applicazione, anche in agricoltura, dell’intelligenza artificiale.
L’ultimo punto è più complesso e riguarda l’idea keynesiana, ma non di Keynes, che ciò che rileva in un sistema di mercato sia la dimensione della domanda, mentre la sua articolazione settoriale e l’offerta, siano meno rilevanti. Questa impostazione è divenuta archetipica a seguito del dibattito che si ebbe all’uscita della Teoria Generale (1936) – cui Keynes non poté partecipare per via dei suoi frequenti problemi di salute – e che vide prevalere l’impostazione di Hicks-Hassen, divenuta celebre come modello IS-LM che ha poi infestato tutti i manuali di Macroeconomia, rispetto a quella di Harrod-Robinson. Il dibattito si incentrò sul questione se l’impostazione keynesiana fosse o meno “solo” un caso particolare della più generale teoria neo-classica dell’equilibrio generale; tuttavia per quanto più ci interessa in questa sede, il punto fondamentale dell’impostazione che prevalse è: la dimensione della domanda determina, con un procedimento moltiplicativo in relazione inversa con la propensione al risparmio, il reddito e quindi l’occupazione, indipendentemente dalle caratteristiche del settore in cui lo shock di domanda si genera. Nel nostro esempio, indipendentemente dal fatto che la domanda venga dal settore agricoltura o da quello della manifattura.
Invece, più realisticamente, è pensabile che non sia così e che il risultato finale in termini di reddito e di occupazione dipenda anche da quale settore proviene l’impulso, se gli stessi hanno caratteristiche diverse. In particolare, si può ipotizzare che:
1) i due settori abbiano un diverso livello di capitale per addetto o, più semplicemente, che il capitale richiesto per ogni unità di prodotto sia diverso tra i due settori e
2) l’impatto sulla produttività sia diverso a seconda di quale settore sia in crescita.
Cominciando da questo ultimo punto, appare ragionevole supporre che la produttività sia più sensibile all’andamento della manifattura, che produce ad esempio macchine a controllo numerico e intelligenza artificiale, che non a quello dell’agricoltura; nell’ipotesi che le imprese fissino la domanda di lavoro minimizzando il salario per unità di produttività – ipotesi che raccorda una serie di teorie sul mercato del lavoro, che riassumerei definendole dei “salari di efficienza” (che comprende la selezione avversa, l’azzardo morale, i modelli di shirking e il modello di Akerlof) – questo significa che se lo shock proverrà dal settore della manifattura, il conseguente miglioramento della produttività avrà un impatto maggiore in termini di occupazione.
Per quanto attiene all’aspetto relativo al capitale/prodotto, si può comprendere il meccanismo con un semplice esempio numerico: entrambi i settori partono da un prodotto di 100, la propensione al risparmio è del 15%, l’aumento di domanda del 5%, il settore agricoltura opera con un rapporto capitale/prodotto del 25%, la manifattura del 50%; per semplicità non si considera la propensione all’importazione e l’effetto spiazzamento sugli investimenti di un eventuale rialzo dei tassi dovuto alla crescita; inoltre si ipotizza che non vi sia capacità inutilizzata.
Il primo round porta uan crescita del prodotto del 33% (5*1/0,15), dovuto all’effetto del moltiplicatore della domanda; l’incremento di reddito produrrà in agricoltura la necessità di un investimento per adeguare la struttura tecnica pari a 33*0,25, cioè di 8, l’analogo dato per il settore della manifattura, dove il rapporto capitale/reddito è di 0,50, sarà di 17.
Questa nuova domanda rivolta al settore degli investimenti produce a sua volta un incremento di reddito in funzione del moltiplicatore: il risultato finale in termini di prodotto sarà di 244 nella manifattura contro “solo”189 dell’agricoltura. Nell’ipotesi che l’incremento di capitale richiesto provenga interamente dal settore della manifattura, il differenziale di crescita sarà più limitato, ma comunque significativo: 244 contro 217.
Conclusione, semplice ma non banale: partendo da stesse condizioni di prodotto, lo stesso incremento di spesa comporterebbe un aumento del PIL dell’89% nel settore dell’agricoltura e del 144% in quello della manifattura, ciò a ragione della diversa tecnica impiegata che richiede maggiore dotazione di capitale, che va pertanto esso stesso prodotto, in quest’ultimo settore (tale effetto è passato in letteratura come acceleratore e si deve a Clark, 1919).
Proviamo a tirare le fila del discorso: se cresce la domanda per i settori con contenuto rapporto capitale per unità di prodotto e/o a bassa tecnologia l’ampliamento economico è destinato ad avere il “fiato corto”. Ad esempio, questo è uno dei problemi dei paesi in via di sviluppo, in cui l’aumento del reddito indirizza la domanda ai settori tradizionali, essendo il reddito troppo basse per produrre una diversificazione del paniere del consumo, ciò implica che non si porrà in essere l’offerta di nuove produzioni che richiedono nuove tecnologie e i relativi investimenti tecnologici.
Ovviamente, è possibile osservare che in realtà l’esigenza di nuovo capitale potrebbe essere un freno all’attività, per esempio se la domanda di finanziamento fosse così sensibile da aumentare i tassi d’interesse; si può anche supporre che vi possa essere un sensibile livello di capacità inutilizzata, per cui non necessariamente scatterà il meccanismo dell’acceleratore.
Tuttavia, la mia opinione è che una visione del tipo di quella abbozzata in questo scritto è più di lungo periodo – il che rende ragionevole trascurare questi effetti – e attiene maggiormente alla politica industriale, che comprende anche la politica demografica di cui quella legata alla gestione dei flussi migratori e un tassello importante, che non a quella congiunturale.
Stante quanto descritto, veniamo all’ultimo punto tra quelli che mi ero prefisso di trattare, cioè di come impostare la discussione: prima di decidere su quale settore puntare e di conseguenza su quali leve agire, i vari attori coinvolti – funzione pubblica, associazioni di categoria ect.. – dovrebbero raccogliere dati sulla situazione del sistema produttivo dell’orvietano e, idealmente, avere delle indicazioni almeno di massima sulle relazioni intersettoriali (la cd matrice di Leontief) attuali e “desiderate”: queste relazioni spiegano le ricadute di produttività tra i settori e l’intensità di capitale delle tecniche nei vari rami produttivi, cioè come visto descrivono l’impatto finale in termini di reddito e occupazione delle varie opzioni di policy, cioè i cosiddetti moltiplicatori settoriali.
Alla fine di questo – spero non faticoso – percorso, possiamo ritornare infine a Nietzsche: non saremo condannati al ricircolo del ritorno dell’uguale se e solo se riusciremo a suscitare nel settore di tradizionale rilevanza i processi di produttività che provengono dai settori innovativi, che, peraltro, verosimilmente operano con un moltiplicatore finale di domanda più alto per via dell’effetto di accelerazione dato dal capitale per unità di prodotto. Per far questo, le aziende dell’orvietano devono legarsi in rete, in una logica intersettoriale che crei una sorta di integrazione verticale delle filiere, in tal modo mitigando anche l’effetto della piccola dimensione, che affligge il sistema orvietano, sulla produttività.