di Laura Marchesini
È l’assillante e incalzante saluto al giorno del tamburino delle quattro a svegliare le stagioni dell’anima d’ogni martano. E quando il suono ferroso e perentorio della pelle tesa del tamburo percossa con serafica e religiosa maestria raggiunge l’acme, in quel momento, il suo battere ossessivo irrompe dentro al petto e lo si accoglie come un malinconico e irrevocabile dolore necessario e imprescindibile al proprio vivere, tanto profondo è il segno del suo passaggio che ogni anno rimarca nella mente e nel cuore. È così che Marta ogni “quattordici maggio” vuole cominciare.
E non c’è deroga né doglianza che possa comprometterne il naturale compimento perché spezzare il filo consacrato che lega il presente della comunità al proprio passato e che offre con devozione al futuro non sarebbe solo privarla del suo rito salvifico ma è mutilarla della sua profonda quanto insondabile identità così spirituale e così arcaica.
Marta, che emerge bella e rispettosa dal letto liquido del suo lago come un quadro iperrealista, si tinge a festa del giallo vivido del suo fiore di maggio tra i profumi d’anice e le muffe di cantina e si prepara a farsi attraversare e profanare dalla sua gente amorosa e sguaiata, fiera, per quel giorno, delle proprie preghiere e di quel lavoro che sacrifica e mistifica nel simbolismo della sua rappresentazione sull’altare della Madonna del Monte.
Marta vuole raccogliersi, ammassarsi, confondersi per poi riconoscersi complice concubina tutta intorno alle vanghe dei suoi “villani”, ai cavalli dei “casenghi”, all’aratro dei “bifolchi”, alle reti dei “pescatori” in una danza fuori dal tempo che dura quanto la memoria dei nostri avi e colora di straordinaria appartenenza la corsa eterna del nostro sangue. Ed è lì su quella terra calpestata che i martani ipotecano speranze, coltivano desideri, tramandano le loro storie semplici di lacrime e sorrisi. Nel tumulto, mai scomposto, della nostra giostra pagana gli uomini virili e sudati dentro le camicie bianche, i pantaloni scuri e i cappelli maremmani innalzano alla propria divinità i canti mariani più intonati e più disperati intercalando la loro andatura con sgraziati e appassionati “EVVIVA MARIA!” Le mani, grossolane, si fanno delicate ancore nell’afferrare, misericordiose, quelle dei propri vecchi e si tendono rassicuranti e forti ai propri figli per una grande, collettiva giaculatoria universale strillata fin dentro la chiesa, “Sù”, “Al Monte”.
Tre volte. Tre, “le passate” dentro al nostro tempio cui si affida con primitiva maestosità la protezione e la prosperità invocata a quella Madonna che sembra quasi trasfigurata del suo tratto ecclesiastico per diventare la Grande Dea Madre di tutti. Tre, le passate per una ciambella da portare con ossequioso rispetto al braccio ché i polsi robusti delle donne hanno impastato e ricomposto in un cerchio perfetto, simbolo atavico d’una eternità che si consuma e si rinnova nel profumo d’anice trasportato dal vento dei ricordi.
Il santuario, diventato un’arena di preghiera, abbandona quasi del tutto la sua solennità e porta in scena la coscienza autentica d’un popolo che si narra mischiandosi ai fiati umidi e affollati e all’odore acre delle primizie adagiate consegnandosi così alla benedizione divina.
Vòlte ormai le prime ore del pomeriggio, i petali di rosa e ginestra che le donne tirano dalle finestre al passaggio dei propri uomini fanno delle vie del paese il teatro finale del rito propiziatorio iniziato la mattina presto accompagnando in una danza esoterica e sensuale il corteo che ripercorre il tragitto il quale, uguale ma contrario, diviene l’uroboro mitologico in cui il serpente mangia la sua coda e che il simbolo circolare senza inizio né fine della ciambella richiama nel rappresentarci l’eterno ritorno e la natura ciclica della vita che si divora e si rigenera.
Prima che il tramonto sostituisca l’ombra alla luce l’ultimo suono del tamburino lascerà che il silenzio prenda il posto del clamore.
Per i martani, il quattordici maggio, non è solo “festa”, ma è espressione e sintesi metaforica della propria esistenza dove ogni simbolo trasuda le fatiche ed esala le grazie dei nostri padri, sublima gli amori e dolori delle età trascorse e quelle in divenire, raccoglie e archivia i sentimenti, filtra i rancori, accende i valori ed eleva gli spiriti ad una contemplazione laica, quella sì, davvero, sacra.
Ed è così, tra sussurri e grida, che Marta scrive la poesia della sua storia senza che la retorica delle parole ne corrompa mai il significato intimo ed ancestrale che sempre cerchiamo e sempre ritroviamo nell’urlo liberatorio “Volémo di’ ‘na volta “Evviva”?”.