Articolo di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo)
Un treno a lunga distanza che collega Costantinopoli a Parigi. Un viaggio di pochi giorni. Pochi passeggeri a bordo. Un orologio da taschino fermo alcuni minuti dopo la mezzanotte. Un urlo soffocato. Un trambusto. Un silenzio di morte. E ancora, un fazzoletto con un’H ricamata, l’alfabeto cirillico e un kimono scarlatto. Una divisa da controllore. Un nettapipe. Un bottone strappato. Un passaporto contraffatto.
Il viaggio dell’Ispettore della polizia belga Hercule Poirot attraverso l’Europa, a bordo del lussuoso treno Orient Express, inizia quasi subito con un omicidio. All’indomani della partenza, il corpo dell’uomo d’affari Samuel Ratchett viene ritrovato senza vita nella sua cuccetta, martoriato da dodici coltellate, inflitte più o meno brutalmente. Unico indizio da cui partire, un foglietto di carta mezzo bruciato su cui appaiono alcune lettere che riconducono ad un nome, Daisy Armstrong, una bambina rapita pochi anni prima e per la cui morte nessuno era ancora stato condannato. Poirot capisce subito che la vera identità della vittima è in realtà Arturo Cassetti, un malavitoso italiano colpevole del sequestro e della morte della piccola Daisy, il dolore per la perdita della quale aveva causato indirettamente una catena di morte tra chi le era più vicino e la amava, a partire dai suoi genitori fino alla cameriera di casa Armstrong, accusata ingiustamente di essere una complice dei rapitori e suicidatasi non potendo sopportare l’infamia di cui la stavano incolpando.
Le indagini di Poirot, aiutato dal Dottor Costantine e da Monsieur Bouc, si incanalano subito nella direzione della vendetta e della punizione per il crimine per cui Cassetti non aveva mai pagato.
Gli indizi, a volte rivelatori e altri fuorvianti, messi spesso per ingannare e confondere il geniale investigatore, sommati agli interrogatori degli undici passeggeri e del capotreno, porteranno Poirot ad una scoperta sorprendente che vedrà trionfare una giustizia attuata tramite un piano di vendetta corale e resa dei conti che rimetterà a posto tutti i torti compiuti e darà finalmente pace a chi l’aveva persa.
Tra i romanzi più famosi di Agatha Christie, scritto durante un soggiorno proprio a Istanbul (un tempo Costantinopoli), Assassinio sull’Orient Express è un eccellente esempio di magistrale narrativa gialla definita enigma proprio perché la risoluzione del caso è un vero rompicapo, un insieme di tasselli che vanno ricomposti come le tessere di un mosaico, che solo alla fine danno un’immagine chiara e completa degli eventi. O meglio, come il cubo magico di Rubik, le cui facce devono ruotare parecchio sul meccanismo interno in modo che ogni lato torni ad essere di un unico colore, così da completare il gioco.
È una storia ben articolata (benché anche stavolta mi ritrovi a dire che la trasposizione cinematografica di Lumet del 1974 sia nettamente migliore rispetto alla pagina scritta) in cui quasi niente è come sembra, in cui il cattivo a volte è solo un cattivo mentre, altre, un cattivo è solo un buono ferito e arrabbiato, un buono che ha perso molto e che vuole che venga fatta giustizia per questo. Ma lì dove non arrivano Dio e la Legge, deve intervenire l’uomo con la sua vendetta, con la sua giustizia, istruendo una sorta di processo in cui il cattivo è giudicato colpevole e paga tutte le sue colpe.
Leggendo questo libro, mi sono trovata a ragionare parecchio sul concetto di vendetta.
La vendetta è fondamentalmente un danno materiale o morale che viene inflitto ad altri per pareggiare un oltraggio subito. È un umano desiderio di risarcimento che nasce nel momento in cui si viene colpiti da un torto, benché porti con sé il paradosso della giustizia stessa, ritenendo ingenuamente che la vendetta possa liberare dall’iniquità dell’ingiustizia subita.
Si dice che ci sia spesso sproporzione tra il danno e la vendetta, perché in realtà non c’è modo di quantificare il dolore, per cui come è possibile sapere quando la vendetta ha generato davvero giustizia? Forse c’è un indicatore interno che ci avverte facendoci sentire in pace, creando dentro di noi uno stato di grazia che ci quieta e che ci fa capire che è abbastanza, che va bene così, che è tutto finito. O forse è la morale comune a determinarlo, anche se non sempre è un costante e universale metro di giudizio cieco e imparziale.
Nel Levitico, il terzo libro della Bibbia, la vendetta viene assimilata nel principio di occhio per occhio, dente per dente, la Legge del Taglione, un diritto che riconosce, a chi ha ricevuto un oltraggio da un’altra persona, la possibilità di infliggere a quest’ultima un danno pari all’offesa subita. Già nel Codice di Hammurabi, che risale a quasi duemila anni prima della nascita di Cristo, erano riportati elementi simili a questa legge, secondo cui la pena inflitta al peccatore dovesse essere identica al danno provocato. In sostanza, si trattava di una specie di compensazione che legittimava la vendetta.
Nella mitologia greca, la vendetta è personificata dalle Erinni. Nate dal sangue del titano Urano e figlie della Notte, le Erinni erano rappresentate come divinità alate, coi capelli di serpenti e le mani che brandivano armi per torturare il peccatore. Il loro compito era punire i delitti commessi contro la propria famiglia, straziando il colpevole fino a farlo impazzire. Sempre appartenente alla mitologia greca, e figlia anch’essa della Notte, Nemesi è un’altra incarnazione della vendetta. Il suo nome significa distribuzione di giustizia. Dea della giurisdizione, dispensava infatti le punizioni riparando ai delitti impuniti. Il suo corrispettivo figurativo sarebbe quello della dea bendata con in mano la bilancia perché, da che mondo è mondo, la legge è uguale per tutti, si sa, e così anche le giustizia.
Nell’immaginario collettivo, nemesi è un appellativo che viene riferito al cattivo per eccellenza, come Joker per Batman, Lex Luthor per Superman e Magneto per gli X-Men.
Nella letteratura, il romanzo di vendetta per antonomasia è sicuramente Il conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, che racconta di un ingiustamente condannato per alto tradimento Edmond Dantess che torna dal passato per punire tutti quelli che avevano cospirato contro di lui.
Tracce di vendetta sono presenti anche nell’Amleto di Shakespeare, dove il giovane principe di Danimarca cerca di smascherare il delitto del padre, e in Moby Dick, di Melville.
Se ne respira un po’ anche nella lirica, e nello specifico in Rigoletto, di Verdi, in un’aria il cui il buffone canta «Vendetta, tremenda vendetta!», in difesa della figlia disonorata.
Il cinema conta tantissimi film i cui protagonisti sono animati da un forte e incontrastabile sentimento di vendetta, come per esempio Kill Bill, Revenge, Sleepers, Man on fire e, ovviamente, Il gladiatore, il cui «…avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra.» è ormai entrato nella storia.
Francis Bacon diceva che, nel vendicarsi, un uomo diventa solo un pari del suo nemico, Cervantes che non esistono mai vendette giuste e Goethe che la vendetta più crudele è il disprezzo di ogni vendetta possibile.
Ma è poi tanto sbagliato volersi vendicare?
Voler essere risarciti per quello che si è sofferto? Perché una persona non dovrebbe pretendere che ci sia una ridistribuzione di giustizia quando questa viene a mancare?
Probabilmente, il problema sta nel capire quando la vendetta è davvero giustizia e quando invece è solo una vuota ripicca da orgoglio ferito. Forse, non tutte le colpe meritano una vendetta. A volte, si può perdonare, anche se non è mai una via semplice. Il dolore acceca talmente in certe situazioni che non lascia spazio ad altro, meno che mai permette agli altri di fare ammenda e di riparare ai loro errori. E, in fondo, quanto è giusto il perdono quando ti spezzano il cuore?
Non credo di poter dire che la vendetta sia un sentimento così illegittimo. E soprattutto, non è un sentimento che si può controllare, esattamente come gli altri. Non ci sono giubbotti antiproiettile per l’anima, e nemmeno intorno al cuore, per cui, quando qualcosa ci ferisce a tradimento, arriva direttamente a segno. Quindi, tutto sommato, volersi vendicare non è poi tanto irrazionale.
Come al solito, dipende tutto da noi. Solo che noi non siamo mai sagge divinità bendate che sanno sempre quello che fare. Noi siamo uomini e abbiamo sentimenti complicati da gestire.
Io non sono molto brava col perdono, devo ammetterlo, ma nemmeno con la vendetta. Sono più una da rancore e devo ammettere anche che pure questo è un discreto fardello da portare. Negli anni, mi sono accorta che una cosa sicuramente vera è che l’odio di vendetta rende schiavi tanto quanto il dolore ricevuto. Però a volte consola pensare che il nostro odio arriva a chi ci ha fatto del male, facendolo stare male tanto quanto lo siamo stati noi.
Magari la vendetta non sarà sempre la decisione migliore, solo che a volte, semplicemente, un’altra strada non c’è e un’altra scelta nemmeno. Però, c’è sempre un prezzo da pagare, poi, secondo me. Anche la vendetta alla fine presenta il conto e noi dobbiamo essere pronti ad onorarlo, per non pentirci e per non dover dire ormai è troppo tardi…, altrimenti sarà stato tutto inutile.
Alcuni dicono che bisogna lasciar passare il tempo e che tutto si aggiusterà da sé, però può capitare che il tempo necessiti di un aiuto e di qualcuno che sposti un po’ l’ago della bilancia di Nemesi.
Se dovessi scegliere, credo che la forma più giusta di vendetta sia il Taglione, ma è anche vero, come diceva Gandhi, che a forza di fare occhio per occhio il mondo ci metterebbe davvero poco a diventare cieco.
Un anonimo una volta ha scritto che uccidere il cane non fa guarire dal suo morso ed effettivamente è così. Non lo so quanto la vendetta, a lungo andare, sia l’alternativa più coraggiosa, quanto guarisca e quanto invece faccia marcire dall’interno, o se sia più coraggioso lasciar perdere. Forse, come per tante altre cose, non c’è una risposta esatta, né un periodo di tempo appropriato per provare rancore, sfogarlo, smaltirlo e poi perdonare, e forse nemmeno perdonare è sempre la scelta giusta.
Forse, di giusto non c’è proprio niente se ti viene fatto talmente tanto male da volerti vendicare e reclamare giustizia.
La canzone a cui ho pensato molto mentre scrivevo questo articolo è Apologize degli OneRepublic perché, parafrasando un po’ il testo, ci sono persone che, per i motivi più disparati, ci tengono legati a loro, come se fossimo appesi ai loro destini, finché non decidono di lasciarci andare facendoci schiantare al suolo e ferendoci in profondità, spaccandoci in due, a volte. La vendetta fa la stessa cosa, ci tiene appesi a lei fintanto che non si compie o finchè non siamo noi a mollarla e a liberarcene.
A volte ne usciamo vincitori, a volte sconfitti. Tutto sta a capire quanto ne vale la pena.
#LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconta dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo