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Home Cultura

Archeologia in pillole dal Museo territoriale del Lago di Bolsena: “Vulcenti? No, Villanoviani!”

Redazione by Redazione
20 Maggio 2020
in Cultura, Secondarie, Archivio notizie
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di Pietro Tamburini

Le città costiere di Vulci (Velchi), Tarquinia (Tarkna) e Cerveteri (Chaisre), tutte edificate a qualche chilometro dal mare (così da poterne sfruttare i vantaggi evitandone al tempo stesso i pericoli) e tutte dotate di scali portuali frequentati da mercanti provenienti dall’intero bacino del Mediterraneo e non solo, proprio grazie alla loro posizione sono diventate le più grandi, ricche e potenti città/stato dell’antica Etruria, almeno nel periodo compreso tra l’VIII e il III secolo a.C. Tra queste, Vulci è quella che più di tutte ha tratto vantaggio dagli scambi commerciali con la Grecia e l’Oriente, dotata sia di un porto fluviale lungo il corso del Fiora sia di uno scalo marittimo, i cui resti sono stati individuati nella località di Regisvilla, presso la foce del fiume.
Basti pensare che gran parte delle ceramiche greche rinvenute in Etruria (prodotte soprattutto dalle botteghe di Atene e di Corinto) sono state restituite proprio dalle necropoli di Vulci, tanto che per un lungo periodo si è pensato che si trattasse di ceramiche di produzione etrusca. Finché un grande archeologo tedesco, il Gehrard, in una sua memorabile pubblicazione intitolata “Rapporto vulcente”, non riuscì a dimostrare che si trattava in ogni caso di ceramiche importate dalla Grecia tra il VII e il V secolo a.C., prima a figure nere (fig. 1) e poi a figure rosse (fig. 2): un fiorente commercio che, però, già indebolito per la perdita del controllo etrusco delle rotte tirreniche a seguito della battaglia navale di Cuma combattuta e persa contro i Siracusani (474 a.C.), venne bruscamente interrotto alla fine del V secolo a.C. a causa della disfatta di Atene (principale partner politico e commerciale degli Etruschi) nella Guerra del Peloponneso.

Come accennato, gli artigiani greci esportavano la maggior parte dei loro prodotti in Etruria e le ceramiche di maggior prestigio giungevano sul mercato di Vulci, dove si operava una prima scelta (destinata al ricchissimo mercato locale) e una seconda scelta (esportata verso i centri etruschi dell’entroterra vulcente, fino al territorio volsiniese). Ho usato questa premessa per mettere in evidenza che, oltre al primato economico rispetto al resto dell’Etruria, Vulci ne avrebbe potuto acquisire anche un altro di carattere scientifico nell’ambito dei moderni studi etruscologici dedicati alla ricostruzione delle origini etrusche: un primato che si sarebbe rivelato di un certo rilievo per le implicazioni storiche che avrebbe potuto comportare. Ma così non è stato.
Difatti, se nella seconda metà del XVIII secolo i primi studi etruscologici (riassunti in quella che oggi chiamiamo “Etruscheria”) non fossero stati ancora a uno stadio di conoscenze del tutto primordiale, il nome di Vulci avrebbe potuto “battezzare” quella fase della civiltà etrusca che, non essendo ancora venuta in contatto con la colonizzazione greca dell’Italia meridionale, non aveva potuto compiere quel salto di civiltà che le avrebbe fatto superare la fase protostorica e l’avrebbe traghettata in pieno nella storia. Alludo al quella che, in modo del tutto convenzionale, gli archeologi chiamano da oltre un secolo “cultura villanoviana”.
Le cose andarono così. Gli Etruschi dell’età del Ferro furono chiamati “Villanoviani” a seguito della scoperta nel 1853 in località Villanova di Castenaso (presso Bologna) di una necropoli piuttosto singolare per la tipologia delle sepolture e, soprattutto, per le caratteristiche dei materiali che ne costituivano i corredi funerari (figg. 3-4).

 

Alla metà del XIX secolo gli studi etruscologici avevano fatto notevoli progressi rispetto al secolo precedente e quindi l’autore della scoperta, il conte Giovanni Gozzadini (fig. 5), essendosi reso conto dell’importanza di queste testimonianze archeologiche non ancora documentate in letteratura, non solo attribuì loro immediata e qualificata diffusione (pubblicandole in due monografie nel 1854 e nel 1856) ma ebbe anche l’intuizione che si trattasse delle più antiche testimonianze della civiltà etrusca, anticipando così le conclusioni a cui sarebbero giunti gli studi etruscologici della seconda metà del XX secolo, soprattutto per merito di Massimo Pallottino.

A Francesco Buranelli, etruscologo, già direttore generale dei Musei Vaticani, spetta il merito di avere scoperto che, in realtà, le prime tombe “villanoviane” ad essere rinvenute non furono quelle bolognesi del conte Gozzadini bensì quelle che, quasi un secolo prima (tra il 1776 e il 1778), l’architetto viterbese Filippo Prada (lo stesso che, negli anni immediatamente precedenti, era stato coinvolto nella fondazione di San Lorenzo Nuovo) aveva riportato alla luce a Vulci, nel corso degli scavi condotti in località Casal di Lanza, nell’ambito della sconfinata necropoli dell’Osteria. Ma per l’arretratezza degli studi etruscologici di allora e, soprattutto, per la scarsa competenza del Prada in materia archeologica, la novità e l’importanza della scoperta non vennero colte, i reperti non furono prontamente pubblicati (lo sarebbero stati solo sessant’anni più tardi e la loro scoperta sarebbe stata erroneamente posticipata al 1787) e, quindi, fu necessario attendere il 1853 e gli scavi del Gozzadini a Villanova di Castenaso per riconoscere i resti e dare un nome all’ultima fase protostorica della civiltà etrusca che, quindi, piuttosto che “villanoviana”, si sarebbe potuta chiamare “vulcente”.

Per chi volesse approfondire l’argomento o avere maggiori informazioni può scrivere al dott. Pietro Tamburini all’indirizzo mail: pietro.tamburini53@alice.it

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