di Raffaele Davanzo
Quest’anno voglio mettere da parte l’etimologia ebraica classica della parola Pasqua come momento, di tempo e di luogo, riferito ad un passaggio (l’Esodo dall’Egitto con l’espediente del travestimento da pellegrini); che poi diventa passaggio di stagione, rito di passaggio di età, ecc. Voglio riferirmi invece al suo omofono, il termine latino pascua, plurale di pascuum: i pascoli, i recinti delle pecore, il mondo dell’Arcadia.
I pascua che nell’epitaffio di Virgilio (citati con i rura e i duces) sono appunto riferiti alle sue Bucoliche, ai boschi, ai prati, a Titiro e Melibeo, alla Natura primigenia che Virgilio sta rimpiangendo perché il suo mondo puro è stato concesso a coloni veterani di guerra, e lui lo sa che lo cambieranno irrimediabilmente. Ecco, quest’anno ed in questi precisi giorni è la Natura primigenia, la Madre Terra che dobbiamo celebrare, è la Terra che dobbiamo proteggere perché è questa Terra che a partire dai suoi pascoli dà da mangiare a tutti.
Pascua sono la chiave della nostra stessa sopravvivenza. La Terra non deve essere al servizio passivo di un Giuda unitario (riferimento pasquale, comunque arrivato!) che si chiama Uomo sfruttatore del Tutto. Con gran massa di effetti a catena, tutti in un unico filo di presunta stretta logicità ma che non riusciamo ancora a comprendere bene nel suo sviluppo, dal clima ai microrganismi mutanti.
L’Arcadia di Virgilio, i pascua, i loci amoeni dei pastori mantovani non torneranno più, certo. Ma riflettiamo sui loro significati metaforici, di allora e di sempre: luoghi di sicurezza, di ricovero, di libertà e di amore: di felicità contrapposta alle barbarie. In questa Pasqua di tremori ed incertezze, di impossibilità di concepire un futuro intatto, senza modifiche forzate, volontarie o no, un Rispetto per la nostra Madre deve essere punto di partenza e di arrivo.