di Mirabilia Orvieto
Come è stato possibile che la folla che ha osannato Gesù al suo ingresso a Gerusalemme sia la stessa che poi griderà “Crocifiggilo”? Cristo è accolto come un vero re, sebbene cavalchi un mulo, puledro d’asina. Tappeti e fronde dei campi stesi a terra, mentre tutti acclamano “Osanna!”, che vuol dire salvaci, e poi “«nel più alto dei cieli!”, e cioè fallo con l’appoggio di Dio. Il popolo ha bisogno di un capo, dunque di un messia di potere. Gesù è tra due fuochi: da una parte c’è l’entusiasmo della gente, che vede in lui il leader carismatico ideale per restaurare il regno di Davide; dall’altra la preoccupazione dei capi religiosi, che temono l’autorevolezza e il successo del nuovo profeta.
Il Signore però si apparta con i discepoli in una stanza, presa in affitto per celebrare l’ultima cena, la prima eucarestia, dove rivelerà ai suoi il mistero della sua vita e della sua morte. Dopo che Giuda lascia la tavola, l’impressione è quella di non avere più a che fare con Dio, ma con la dimensione dell’uomo, con l’esperienza umana dell’abbandono e, prima ancora, del tradimento. Giuda tradisce perché spinto dalla profonda delusione di trovarsi difronte a un ‘messia’ molto diverso da quello che si aspettava. Giuda è uno zelota, un rivoluzionario che combatte in nome di Dio per la liberazione del popolo, oppresso dai romani. Anche Pietro, il discepolo prediletto, colui che avrebbe dato la vita per il maestro, tradisce.
Egli non ha considerato che persino i rapporti più profondi possono nascondere dubbi e contraddizioni. Tuttavia, l’effetto del tradimento si manifesterà in maniera diversa nei due discepoli: Giuda si suicida impiccandosi, mentre Pietro piange dolorosamente. In mezzo c’è Cristo che dovrà passare per l’esperienza della solitudine e dell’abbandono, resa ancor più drammatica dalla presenza incombente della morte.
La notte del Getsemani è per Gesù l’ora del disarmo in cui decide rimanere fedele al proprio destino. Giacomo, Pietro e Giovanni non sono nemmeno in grado di rimanere svegli, anzi si rifugiano nel sonno poiché li spaventa vedere nella fragilità di Cristo l’oscuramento della sua grandezza. L’errore di Pietro era stato quello di sopravvalutarsi; infatti, alla vista del maestro inerme davanti al Sinedrio, sconvolto dalla paura, lo rinnega miseramente. Giuda invece vende Gesù per trenta danari, rivelando tutta la sua oscurità e la sua povertà interiore. Egli è chiuso in se stesso e nei propri calcoli umani, ma la delusione verso il maestro si trasforma in disperazione quando sopraggiungerà la condanna a morte di Gesù. Pietro e Giuda rompono un patto, una relazione d’amore. Giunti a questo punto, come dar torto a coloro che – similmente a Sigmund Freud – sostengono che l’amore è solo un sogno, che non esiste una promessa, un amore per sempre?
Eppure negli uomini c’è qualcosa di antico, di radicale, di profondo che sembra dimostrare il contrario. La parola desiderio viene infatti da ‘desiderantes’. Con questo termine si indicava il gesto eroico dei soldati romani al tempo di Giulio Cesare che, sotto un cielo stellato, attendevano i propri compagni di ritorno dal campo di battaglia, a rischio della vita. Ma quella notte la stella delle parole pronunciate da Gesù prima di essere tradito “non c’è amore più grande di questo che dare la vita per i propri amici”, non riuscì ad illuminare, a guidare il cammino dei discepoli. L’incapacità di amare di Pietro e Giuda nasce dalla paura di rischiare, di dare la propria vita per amore, di quell’amore che non si corrompe, che non si vende, che sa attendere e non indietreggia.
Amore e fede sono intimamente legati, sono la medesima cosa. In realtà Pietro e Giuda non sono stati all’altezza del loro sentimento più autentico e profondo che è quel desiderio di vita che Cristo aveva incarnato: tradendo Gesù, essi hanno tradito se stessi! Eric Fromm sottolinea che l’amore non è solo un sentimento, ma è un legame fatto da ‘azioni’ che esprimono l’impegno di un amore duraturo, che non si dissolve nel tempo e che, soprattutto, si assume il peso della vita dell’altro.
L’atto di amare consiste infatti nel prendersi carico dell’altro senza ‘buttarlo via’ quando non corrisponde più ai bisogni e alle convenienze dell’ego. Nel momento in cui si ha a che fare con i rapporti umani la tentazione di ‘possedere’ l’altro, imprigionandolo nelle proprie idee, nei propri desideri, nei propri progetti, è sempre all’angolo. E così hanno fatto Pietro e Giuda. Il racconto della Passione mette in luce che amare non è avere di fronte qualcuno e amarlo, ma diventare una sola cosa con lui, essere dentro, parte di lui. I discepoli pensavano di amare Cristo, ma non erano ancora in Cristo. La fede vera non passa per un convincimento mentale, razionale, come in Giuda, e neanche per un trasporto emotivo, affettivo, come in Pietro. Mente e cuore vanno sempre insieme, altrimenti una ‘parte’ prende il sopravvento sull’altra ed è la fine. Avere fede non si riduce quindi a un teorema teologico o un’adesione morale, ma deve fare i conti con il modo di rapportarsi, e se l’altro non diventa più importante di quello che ‘si pensa’ dell’altro e di quello che ‘si prova’ per l’altro, il rischio dello smarrimento, della perdita, del non ritrovarsi più, è e sarà sempre presente.