Articolo di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo)
C’era una volta il sogno americano. C’erano una promessa di libertà e una speranza condivisa di raggiungere il miglior tenore di vita possibile attraverso il duro lavoro, il coraggio e la determinazione.
C’era una volta l’Oklahoma degli anni ’30, una terra arida a causa delle tempeste di polvere che avevano rovinato tutti i raccolti. E poi, alla fine, c’erano anche i Joad.
I Joad sono la tipica famiglia americana, un nucleo di circa dieci persone tra nonni, figli, nipoti e zii. Tre generazioni tenute saldamente insieme dall’amore e da valori imprescindibili quali la generosità, la comprensione, il perdono e il rispetto gli uni per gli altri. Una famiglia di nuovi poveri, espropriati dalle banche delle loro fattorie non più redditizie dopo il cataclisma meteorologico, che ha perso tutto e che inizierà la propria odissea sulla Route 66 per raggiungere su un autocarro i frutteti della California che necessitano di braccianti per essere lavorati. E, insieme a loro, altre migliaia di famiglie tenteranno la stessa fortuna sulla stessa strada, in una specie di biblica trasmigrazione. Quello dei Joad però sarà un viaggio senza ritorno, in ogni senso. I nonni moriranno lungo la strada, uno dei fratelli li abbandonerà per cercare la sua fortuna da solo e chi rimarrà si troverà a dover affrontare la fatica, la fame e l’umiliazione della miseria. Il loro viaggio terminerà in California, ma anche quella si dimostrerà una terra di povertà e non affatto quella favorevole promessa da chi in realtà ne aveva solo sentito parlare. Niente lavoro per i Joad che di nuovo saranno costretti a spostarsi e a cercare fortuna altrove. Ma questa ricerca li porterà solo ad altra sofferenza, a morte e a disperazione.
Sarà proprio il loro stesso sogno americano a tradirli, a togliergli tutto e a metterli di fronte alla dura realtà del capitalismo egoista che ignora i diritti civili dei lavoratori immigrati.
Sono questi gli elementi fondamentali di ‘Furore’, romanzo di John Steinbeck, simbolo della Grande Depressione americana dei primi anni del Novecento che documenta le condizioni di vita di una popolazione che abbandona il Midwest per raggiungere la California, attratta da appetibili offerte di lavoro stampate su volantini che promettono una terra soleggiata ricca di opportunità.
‘’Furore’’ non ebbe subito vita facile a causa della censura fascista che costrinse ad una pesante eliminazione di molte parti del testo ritenute troppo sovversive e della traduzione che allora si permetteva diversi rifacimenti. Considerato un libro troppo comunista per la forte denuncia sociale, venne messo al bando e bruciato in piazza, finendo addirittura nel mirino del capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, che ordinò di indagare e di redigere un rapporto segreto sullo stesso Steinbeck.
Il titolo originale dell’opera, pubblicata nel 1939, era I GRAPPOLI DELL’ODIO, espressione ispirata ad una canzone di Julia Ward Howe che a sua volta si rifaceva ad una citazione biblica dell’Apocalisse di San Giovanni che recita così: “L’angelo lanciò la sua falce sulla terra e vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio” che descrive simbolicamente il furore e la rabbia dei giusti, due frutti della disperazione e della frustrazione dei miseri e degli sfortunati di fronte al pigro potere economico che preferisce lasciar morire un raccolto piuttosto che pagare il dovuto ai lavoratori giornalieri, facendo leva sulla loro fame e sul loro bisogno.
É proprio per questo che lottano e faticano tutti i personaggi del libro di Steinbeck, per avere un lavoro e per guadagnarsi onestamente e dignitosamente da mangiare perché, come dice uno di loro, “Un uomo deve pur mangiare… Un uomo ha il diritto di mangiare”.
Non avevo mai letto nulla di Steinbeck ma solo visto la bellissima trasposizione cinematografica del suo La valle dell’Eden, e devo dire che questo romanzo, benché duro e triste in più punti, mi è piaciuto molto e mi ha fatto tanto ragionare su alcuni aspetti della natura umana quali la collera, il bisogno, l’amore, la delusione e la facoltà di poter scegliere liberamente. Ma una cosa sulla quale ho davvero riflettuto è il rimorso. Tom, il maggiore dei fratelli Joad, appena uscito di prigione sulla parola dopo aver scontato quattro dei setti anni a cui era stato condannato per omicidio, parlando con alcuni suoi amici proprio delle sue azioni, dichiara di non essersi minimamente pentito del suo letale gesto e dice: “Se hai fatto qualcosa che ti fa vergognare, magari ti metti a pensare a quello, Ma io no, accidenti: se ora Herb era vivo e mi veniva addosso col coltello, io gli spaccavo la pala in testa un’altra volta”.
Non so perché tra le tante bellissime frasi che mi sono segnata è proprio questa quella che non sono più riuscita a togliermi dalla testa. Forse è proprio per quel SE iniziale, quell’ipotesi di pentimento.
Il rimorso è fondamentalmente la consapevolezza tormentosa del male commesso. È un sentimento di dolore per un’azione che non si vorrebbe aver compiuto.
È spesso confuso col rimpianto, ma non sono esattamente la stessa cosa perché mentre il rimorso si riferisce a qualcosa che si è fatto e di cui ci si è pentiti, il rimpianto è un ricordo nostalgico e dolente di ciò che invece non si è fatto con un conseguente rammarico di qualcosa che magari poteva essere ma non è stato.
Molte religioni definiscono il rimorso come la dimenticanza dei valori sacri e della spiritualità, e lo concepiscono come un allontanamento dalla divinità e da tutto ciò che rappresenta, e l’unico modo di potersi purificare dalla colpa risulta essere la redenzione. La redenzione libera dal peccato e protegge dalla dannazione eterna. È una sorta di passaggio obbligato, quindi, per poter rimettere a posto le cose e per riscattarsi dagli errori commessi. E nell’immaginario mistico collettivo, credo sia Giuda, il traditore di Gesù che si impicca ad un albero non potendo reggere il peso della colpa, il simbolo impersonificato del rimorso.
Ho sentito dire spesso che nella vita è sempre meglio avere rimorsi che rimpianti perché è meglio aver tentato e fallito piuttosto che non averci neanche mai provato. Tutti, prima o poi, si trovano di fronte ad un bivio, indecisi sulla direzione da imboccare. Ma ad un certo punto la decisione va presa e solo lungo la strada si può scoprire se la scelta fatta sarà stata quella giusta o quella sbagliata.
Ma di fronte a questo bivio, cos’è che ci fa scegliere una strada piuttosto che un’altra? Che cosa ci trattiene? E cosa invece ci tenta? Non so dare risposte esatte a queste domande ma credo che abbiano tutte e tre a che fare con la felicità.
La felicità è la meta ultima cui tutti tendiamo e le scelte che facciamo sono tutte finalizzate alla sua realizzazione, anche se poi possono rivelarsi sbagliate, se feriscono altre persone, anche se costano sacrificio e perfino se si portano dietro conseguenze che pesano come un cappotto bagnato. Anche se poi finirai per vergognartene.
Io credo che tutti abbiamo fatto qualcosa di cui poi ci siamo pentiti, qualcosa che vorremo cancellare non solo dalla nostra memoria ma proprio dalla storia intera e con la quale siamo costantemente in guerra. Allo stesso modo, molti di noi hanno parecchi rimpianti a cui vorrebbero rimediare e dare pace e, per come la vedo io, i rimpianti peggiori sono quelli per le parole non dette.
In questi giorni in cui siamo costretti a vivere lontani dalla maggior parte dei nostri amici e delle persone che amiamo, ho scoperto di essere piena di rimpianti per le tante cose che non ho fatto e, soprattutto, per le parole che non ho detto. Parole che mi sono rimaste in gola come un sasso e che adesso un po’ mi strozzano. Mi strozza in particolar modo il pensiero che potrei non avere più una seconda occasione per dirle. Mi sono chiesta spesso perché quelle parole non le diciamo mai quando sentiamo che è il momento giusto di dirle. Forse per paura, forse per orgoglio o forse per la consapevolezza che una volta dette non potremmo rimangiarcele, né fare finta di niente ma solo farci i conti.
Forse, ciò che pesa ancora di più è il dubbio di come sarebbe potuta andare se invece le avessimo dette quelle parole e se quello che poteva essere magari poi lo sarebbe stato davvero.
Un’altra cosa che mi chiedo spesso è dove vanno a finire le parole che non ci diciamo e che restano segrete? Forse rimangono chiuse nelle penne per lettere che non verranno mai scritte o nelle tastiere di messaggi che non verranno mai digitati. Forse ci sta un cimitero anche per loro ed è lì che prima o poi ci ritroviamo tutti a piangere.
Harriet Beecher Stowe una volta ha detto proprio che le lacrime più amare versate sulle tombe sono per le parole inespresse e per le azioni mai compiute.
Il mio amico Alessandro (che ringrazio per la foto in calce!) dice che il rimorso è qualcosa contro cui è inutile combattere perché è nell’imperfetta natura umana sbagliare e quindi prima o poi è inevitabile inciampare per un passo falso. La mia amica Claudia dice invece che gli sbagli sono come delle cadute: lì per lì senti solo la botta e sei quasi convinto di non esserti fatto nulla, ma poi arrivano il dolore e il livido e allora ci si accorge che non ci si è rialzati proprio del tutto immuni. Credo che questo livido si possa tranquillamente definire senso di colpa, che è il sentimento che ci tormenta fino ad esaurirci. Claudia però dice anche un’altra cosa e cioè che le persone possono imparare dai propri sbagli e che è quella la cosa importante, perché ciò gli permetterà di non commetterne più in futuro.
Cesare Pavese scrive che i veri acciacchi dell’età sono i rimorsi e anche questa è una frase che fa parecchio riflettere. A volte non ci sono seconde occasioni, non si può portare indietro il tempo e rimediare ai volevo, potevo, dovevo. Quindi forse è proprio vero che fanno meno male i rimorsi dei rimpianti.
In filosofia, gli epicurei sostanzialmente sostenevano che solo col soddisfacimento dei propri bisogni e col godimento del piacere senza preoccuparsi delle conseguenze si potesse raggiungere la felicità e forse non avevano poi tanto torto perché se qualcosa può renderci felici, allora dobbiamo vivercela tentando il tutto per tutto e pazienza le conseguenze, perché forse ci sono delle cose per cui vale la pena anche giocarsi la coscienza.
Di rimorso, secondo me, parlano più o meno anche alcune tra le pellicole più belle della storia del cinema, come per esempio il Carlito’s Way di Brian De Palma, per la scena in cui un moribondo Al Pacino, ex delinquente che ha deciso di rimettersi sulla retta via, a causa di un’ultima scelta sbagliata che manderà all’aria tutti i suoi piani di ricominciare una nuova vita con la sua fidanzata su un’isola dei Caraibi, si ritrova ferito e sul precipizio della vita a ripensare proprio a quell’isola che non vedrà mai per colpa dei suoi sbagli passati, oppure American History X, per il suo Derek Vinyard, giovane skinhead neofascista che, dopo alcuni anni di galera, si rammarica di tutto il tempo perso dietro ad un odio sterile che lo ha soltanto impoverito togliendogli la libertà e il rispetto di se stesso, o ancora La 25ª ora di Spike Lee col suo Monty (casualmente interpretato anche lui da un eccezionale Edward Norton) che, poche ore prima di entrare nel carcere dove sconterà sette anni per droga, dopo un interminabile monologo ricco di invettive contro il mondo intero, finisce per prendersela con l’unico vero colpevole di tutto il suo destino e cioè se stesso, il se stesso che adesso tornerebbe indietro per non commettere più tutti gli sbagli che lo hanno condotto alle porte della galera.
La canzone
Stavolta è stato semplice scegliere la canzone giusta per questo articolo. Si tratta del brano The ghost of Tom Joad, tratta dall’omonimo album del 1995 di Bruce Springsteen. Arrangiata con una chitarra, un’armonica a bocca e pochi altri strumenti acustici e cantata quasi sussurrata, la canzone si rifà nel titolo proprio al Tom di Steinbeck ma quello del testo non è più il Tom letterario, è un fantasma che si aggira tra la povera gente, per le strade dove «si combatte per una casa, per un lavoro dignitoso e dove ognuno lotta per essere libero», e diventa la figura mitica di tutti i respinti e dei sognatori in cerca di alternative alle ingiustizie della vita.
Lazaro Huerta una volta ha scritto: “Che la vita ci perdoni per tutti i baci che non abbiamo dato”. La vita dovrebbe perdonarci anche le parole che non ci siamo detti perché, nonostante tutto, ne vale sempre e comunque la pena.
Forse esiste un posto in cui siamo tutti coraggiosi e ce la facciamo a dirlo quello che proviamo. Spero tanto di trovarlo, un giorno.#LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconta dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo