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Home Cronaca

Coronavirus, parla l’infettivologo professor Claudio Puoti: “Un vero problema epidemiologico”

Redazione 2 by Redazione 2
7 Marzo 2020
in Cronaca, Archivio notizie
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di Gabriele Marcheggiani

ORVIETO – Primario idoneo di malattie infettive, epatologo di fama, primario ospedaliero di ruolo per oltre quindici anni, docente universitario, attualmente responsabile del servizio di epatologio presso l’INI di Grottaferrata (Roma), Claudio Puoti si definisce soprattutto “militante dell’umanità,  partigiano della solidarietà”. Al tempo del coronavirus, dalla sua seguitissima pagina facebook, il professore non ha lesinato approfondimenti, consigli, esperienze, sempre con i suoi modi garbati, con un linguaggio semplice e di facile accesso a chiunque, che nella tempesta di informazioni e pareri roboanti che piovono da ogni dove in questi giorni, ha rappresentato per molti un rifugio dall’ansia che sta assalendo il nostro Paese.
Claudio Puoti è medico competente, professionista serio e capace ma è soprattutto una di quelle persone – e sono poche oramai – che hanno la sfrontatezza di razzolare esattamente come predicano: impegnato nel sociale, nel 2014 ha lasciato per qualche mese il suo studio e il suo reparto ospedaliero per imbarcarsi in una delle missioni della Marina Militare italiana in soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Sempre disponibile per una parola, un consiglio, una condivisione, il professore ha gentilmente rilasciato una breve intervista al nostro giornale, nella quale affronta e dice la sua sull’emergenza CoVid-19.

Migliaia di morti negli Stati Uniti, centinaia di migliaia nel resto del mondo (fonte: Businessinsider Italia): per fortuna non sono i dati del virus COVID-19 ma quelli dell’H1N1 del 2009, la famosa “suina”. Professor Puoti, abbiamo sottovalutato quella situazione o stiamo esagerando ora?

Come già accaduto nel mondo con la SARS, le MERS e altre epidemie, siamo di fronte ad una situazione nuova, in quanto il SARS-CoV2 è un virus capace di compiere il salto di specie e di infettare una popolazione che non lo aveva mai conosciuto. Ciò significa che al di là della letalità, elevata per una patologia respiratoria infettiva ma bassa rispetto ad altre patologie, la capacità di diffusione è assai elevata. Forse la vera novità è che un virus molto contagioso si sta diffondendo in paesi altamente industrializzati (Cina Italia, Sud Corea, e fra poco Francia e Germania), mettendo sotto stress le strutture produttive e la vita sociale. Quindi, sottovalutazione allora perché non ci aveva colpito in misura cosi massicia, un po’ di esagerazione ora.

Aveva mai visto nulla di simile in vita sua? Non solo dal punto di vista clinico ma anche dall’impatto che l’epidemia sta avendo a livello sociale, politico, economico. Ad esempio, leggo in questi giorni di un’epidemia di “asiatica” verso la fine degli anni ’60 che mise a letto milioni di italiani e chissà quanti ne morirono…

Il fatto è che siamo nell’era della rapida diffusione non solo dei virus ma delle notizie, nell’era della comunicazione di massa, nell’era dei social in cui ognuno può parlare, anche a sproposito. Io ebbi da piccolo e ricordo l’asiatica che fece molti morti, anche nella mia famiglia, ma quella era un Italia ancora arretrata, in parte contadini, c’era ancora un rilevante analfabetismo, pochi leggevano il giornale e ancora meno avevano la TV in casa. Situazioni epidemiologiche simili, situazioni socio-culturali ben diverse.

Al di là della gravità della situazione, non crede che una certa sovraesposizione mediatica di alcuni virologi e medici di fama, possa aver innescato qualcosa che somiglia molto al panico? Voglio dire, non sembra esserci un parere univoco, sui giornali, in TV, sui social, gli stessi esperti sembrano contraddirsi tra loro. Manca un certo coordinamento, diciamo così, scientifico?

Assolutamente corretto. Una colpa che io muovo ai miei colleghi virologi ed infettivologi è di non parlare con voce unica, di proporre ipotesi e valutazioni diverse con troppo clamore, offrendole a un pubblico che spesso non ha gli strumenti scientifici per apprezzare il retroterra che sottende le differenze scientifiche.

“In scienza e coscienza”, da infettivologo, che idea si è fatta di questo virus e delle misure prese finora per arginarlo? Cosa direbbe a un suo ipotetico paziente che dovesse essere stato contagiato dal virus?

Penso che a fronte di un problema relativamente importante quanto a letalità abbiamo di fronte un vero problema epidemiologico. Se un mio paziente fosse contagiato dal virus, o io stesso, direi di fare una valutazione delle co-patologie (fumo, diabete, cardiopatie) perché in assenza di queste e se l’età non è troppo avanzata il rischio di morte è relativamente basso.

 Alle domande di un suo nipote sul caos creato dal virus lei ha risposto con una favola di Esopo.

Ho cercato di fargli capire che la verità è una sola, ma che il compito della scienza è esaminare entrambe le facce della moneta analizzando i numeri in tanti modi per arrivare alla stessa conclusione, anche se  i percorsi possono sembrare diversi.

Premesso che il “rischio zero” non esiste in nulla a questo mondo, quali possono essere le misure precauzionali da adottare? Davvero può bastare star distanti almeno un metro da un’altra persona e lavarsi spesso le mani, magari con un disinfettante?

Il problema è che non tutti lavano le mani, non tutti evitano di metterle in bocca, non tutti tossiscono o starnutano educatamente. Forse questa situazione ci insegnerà non solo le minime norme igieniche, che da sole non bastano certo ma sono di estrema importanza, ma ci insegnerà anche il galateo.

Uno dei focolai dell’epidemia nel nord Italia sembra essersi acceso nel Pronto Soccorso di Codogno e ancora mentre parliamo ci sono medici e infermieri infettati in diversi nosocomi: da primario esperto e navigato, ci possono essere state carenze precauzionali dal punto di vista sanitario?

Sicuramente sì, anche se va detto che in quei giorni non si era ancora creata l’attenzione attuale al virus, e considerato che d’inverno ci sono molti casi di polmonite da agenti vari, il caso 1 è stato scambiato per uno di questi.

Anche qui in Umbria si comincia a parlare di emergenza, di ospedali “blindati”, sembra l’antivigilia di una guerra: crede che se i contagi dovessero aumentare il sistema ospedaliero italiano potrebbe andare in tilt?

Probabilmente si, e mi preoccupano i pazienti gravi con altre malattie anche più mortali che potrebbero non trovare immediata ed adeguata risposta.

 In questi giorni emerge come non mai il ruolo indispensabile della sanità pubblica, colpita negli ultimi decenni da tagli indiscriminati in favore del privato: questa emergenza, quando passerà, potrà aiutare ad invertire la tendenza?

Temo che ormai sia tardi. Le spese enormi che comporta e comporterà questa epidemia non potranno anzi che accentuare questa tendenza erronea che si protrae da decenni.

Lei ha lavorato come medico volontario nelle missioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo: dai barconi non è giunta neanche un’influenza banale mentre il coronavirus è arrivato in Nigeria portato da un italiano. Anche questa potrebbe essere una lezione da imparare, crede che ne saremo capaci?

Non ebbi paura di Ebola partecipando alle missioni di soccorso con la nostra Marina Militare e non ho paura di CoV2 adesso. Si disse allora che i migranti avrebbero portato il virus Ebola in Italia, e invece arrivò in aereo con due volontari infettati. Purtroppo quando tutto questo sarà finito molti torneranno al razzismo, xenofobia ed antisemitismo di sempre, perché disgraziatamente è inscritto nel loro genoma.

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